di Salvatore Greco
La scuderia USTA per le classi ’96, ’97 e ’98 è talmente feconda di interessanti talenti che alcuni rischiano di sfuggire ai radar, specie se compiono scelte che li allontanano – anche solo parzialmente – dalla vita sul circuito. È il caso del newyorkese Noah Rubin, 19 anni di vita e il titolo di campione juniores di Wimbledon 2014 sono i dati che spiccano di più sul suo curriculum assieme a un dato oggi piuttosto curioso: Rubin è iscritto alla Wake Forest University, splendido college della North Carolina.
Wake Forest si trova a un tiro di schioppo dalla cittadina di Winston-Salem, sede dell’omonimo torneo ATP250 che difatti chiude la preparazione agli US Open, ma la tradizione tennistica di questo college è pressoché inesistente. Proprio per questo, ma non solo, è curioso ritrovare tra i suoi iscritti il giovane Rubin, che per altro ha difeso degnamente i colori nero e oro del suo college ai campionati NCAA dove si è arreso solo in finale di fronte all’atleta della Virginia Ryan Shane. Il fatto che Noah Rubin, fresco vincitore del suo primo torneo Challenger a Charlottesville, Virginia, sia passato dal mondo universitario è di per sé una piccola notizia.
Stefan Kozlov, Frances Tiafoe, Taylor Fritz, Tommy Paul, Reilly Opelka, Jared Donaldson e Michael Mmoh assieme a Rubin costituiscono una generazione di talenti che, se dovesse emergere in toto, farebbe la fortuna del tennis maschile statunitense in proporzioni persino superiori a quelle del passato. La cosa che per il momento distingue Rubin in maniera sostanziale da tutti gli altri golden boys è proprio la scelta del passaggio dal college che nessun altro all’infuori di lui ha compiuto.
Il mondo di felpe, prati e foglie di tutti colori dell’autunno è quello che il nuovo corso USTA gestito da Martin Blackman incoraggia e continuerà a incoraggiare ritenendo più facile a livello ambientale una crescita nell’alcova dei tornei NCAA rispetto a una nel mondo sporco e ruvido dei Futures. Il caso di Kozlov, costretto a “emigrare” in Bielorussia per ottenere finalmente il suo primo torneo da professionista dopo una stagione che lo stava logorando, sembra dare ragione a Blackman e alla federazione; a maggior ragione lo fa la vittoria a Charlottesville di un ragazzo con all’attivo solo sei tornei di livello Futures in stagione e un’assenza dai circuiti internazionali durata da febbraio a giugno.
In una stagione durante la quale non ha visto la terra nemmeno con il binocolo, Rubin ha giocato la sua prima vera annata nei tornei dei grandi, tolta la lunga parentesi di ritiro a Wake Forest, senza lasciare il continente costruendosi ranking (poco), gioco (abbastanza) e solidità mentale (già di più) tutto sull’amato cemento yankee con solo qualche sconfinamento a nord, dal vicino dell’acero rosso. Una scelta conservativa, in controtendenza rispetto a quelle di chi è andato persino a giocarsela sulla “colla” europea di agassiana memoria come Paul che per altro sulla terra ha vinto e convinto, ma che al momento premia il giovane Noah e la sua fedeltà al sistema.
Al tennis di Rubin manca l’esplosività dei colpi di Tiafoe, il tempo sulla palla di Kozlov o il servizio di Fritz e Opelka, ma non gli manca una certa solidità mentale che fa da vitale contraltare all’incapacità giovanile di chiudere le partite. Il trionfo di Charlottesville in fondo si può riassumere così, con le vittorie a fatica prima su Quigley e poi su Donaldson per concludere con la finale giocata contro Paul e portata a casa dopo averla ritirata dal baratro di 3-6 1-5 e due match point per l’avversario in cui si era cacciato. Sarà vero, come lui stesso ha ammesso in un’intervista post-partita riportata dal sito ufficiale dell’ATP, che la stanchezza di otto partite in otto giorni fosse il pensiero preponderante, ma evidentemente la volontà di vincere la partita nonostante tutto ha prevalso sul desiderio di raggiungere la doccia, e il segnale è più che positivo.
Resta da vedere cosa succederà ora, con un anno di prestito al college alle spalle e la necessità di misurarsi più frequentemente a certi livelli e – possibilmente – anche su superfici diverse dalla comfort zone cementizia, di certo alla soglia dei suoi vent’anni Rubin di fretta sembra non averne.
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