“Che cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”.
Non parlava certo di Philipp Petzschner, il Perozzi di “Amici miei”, ma senza volerlo ne stava tracciando l’identikit. Anzi, mezzo identikit. Perché il talentuoso tedesco, classe 1984, è sì genio, ma ahinoi (e ahilui) anche tanto altro.
Philipp nasce a Bayeruth, nella Baviera settentrionale, e già all’età di sei anni muove i primi passi sui campi da tennis. Il braccio va, ma è troppo piccolo, troppo fragile. Chi lo allena, si accorge subito che un talento fuori dal normale fa il paio con una disarmante labilità psichica. Eccola, l’altra metà di “Picasso”, suo nomignolo per eccellenza.
Nonostante un bruttissimo infortunio al ginocchio rischiasse di comprometterne prematuramente la carriera, questo buffo spadaccino della racchetta, cresciuto nel mito di Goran Ivanisevic, rialza presto la testa ed inizia a togliersi qualche piccola soddisfazione: nel 2002, anno in cui passa al professionismo, in Repubblica Ceca, arriva la prima vittoria nel circuito Futures, seguita da quella, ben quattro anni dopo, negli Emirati Arabi Uniti.
Nel 2007 si impone per la prima volta in un torneo Challenger, battendo, sul cemento indoor di Rennes, il lussemburghese Gilles Muller con il punteggio di 6-3 6-4, ma soprattutto si presenta agli occhi del grande pubblico con una sontuosa quanto inutile prestazione (triste leitmotiv di una intera carriera) nel match di secondo turno contro Tommy Haas, agli Open degli Stati Uniti. Petzschner viene sconfitto per 4-6 6-3 6-2 7-5, ma le prime pennellate di Picasso lasciano il segno. Per lunghi tratti dell’incontro il centrale di Flushing Meados diventa la sua tela, con Haas spettatore non pagante. Come il pittore malagueno, perfido e a tratti sadico, l’allora ventitreenne funambolo dallo sguardo spiritato regala alla sua platea dritti violentissimi, pallonetti e poi ancora dolci, dolcissime volée, spesso volutamente non definitive, in beffardo controtempo. Con lo scherno di ritardarle e vedere il suo avversario in perenne affanno per agguantarle.
L’anno successivo, nel 2008, compone, nella Vienna di Wagner, la sua prima “sinfonia ATP”, sconfiggendo in finale, nell’incredulità generale, il francese Gael Monfils (6-4 6-4). L’ennesima “settimana da Petzschner”. Avversari spazzati via uno dopo l’altro, luci e ombre, tragico e comico, estasi e orrido. Pigro e irridente, al limite delle svogliato. Ma allo stesso tempo così unico. Una magnifica valvola di sfogo in un circuito dominato da professionisti esagerati.
A settembre del 2009 raggiunge il suo best ranking ATP issandosi fino alla posizione numero 35 della classifica, così tristemente lontana dalla casella numero 400 che ricopre quest’oggi. Ma lui è Philipp Petzschner e il “talento” non si allena!
Nel 2010 ancora uno squillo, ancora una nuova, graffiante ed incompiuta pennellata.
Sul Centre Court di Wimbledon, “Picasso” si porta avanti due set a uno contro Rafael Nadal, per poi cadere, ancora una volta, vittima di se stesso. Gli appassionati hanno ancora negli occhi un secondo ed un terzo set giocati con maestosa leggiadria. Servizi vincenti a catinelle e dieci, cento, mille rovesci in back che per oltre un’ora mandano fuori di testa il maiorchino, uno che di solidità mentale e di self control se ne intende abbastanza. Poi, il buio. Ci risiamo, Picasso.
Quell’anno, e proprio su quel campo, arriva, però, il primo Slam di “Petzsche”, in doppio, in coppia con l’austriaco Melzer, degna metà della sua mela, cui seguono, l’anno successivo, le vittorie a Rotterdam, a Stoccarda, agli US Open (dove regolano con un periodico 6-2 la coppia polacca Frystenberg/Matkowski) e la qualificazione per le ATP World Tour Finals di Londra.
La storia recente è tutt’altro che entusiasmante, tormentata dagli infortuni e da sporadiche apparizioni nei Challenger e negli ITF, ma anche da una nuova vittoria nel doppio (sempre con Melzer, nella sua amata Vienna) e una semifinale raggiunta a Wimbledon qualche settimana fa, in coppia con l’israeliano Jonathan Erlich.
Philipp non è più un ragazzino. E’ allora lecito chiedersi se, fra una follia e l’altra, “Picasso” si stia già vedendo, anzi, rimirando, lontano dal tennis, nel verde della sua Baviera, con la moglie Dewi (il cui fatidico “si” rappresenta il più intenso momento della sua vita extra-tennistica) e il loro figlio Aziz, fra una minuziosa controllata alla sua preziosa collezione di orologi, una partita a golf e una buona birra con gli amici di sempre, davanti ad un match dell’Arminia Bielefeld, di cui è tifosissimo.
“Una volta ho incontrato Federer e gli ho detto: tu sei Roger Federer, quello con il talento, come me…”
Prevedibile, nella sua imprevedibilità.
Aspetta ancora un po’, Philipp. Ci sono altre tele bianche su cui lasciare il segno…
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