di Andrea Martina
Maggio 2013, Campo Centrale del Foro Italico di Roma. Non è il sabato delle semifinali, ma quello del primo turno di qualificazioni. L’impianto è stato finalmente aperto al pubblico e intorno alle tre del pomeriggio una piccola folla rumorosa abbandona momentaneamente gli spalti e si catapulta verso l’ingresso dei giocatori: è arrivato Roger Federer. Qualche minuto da dedicare agli autografi e poi dritto nel Centrale dove farà un breve allenamento per verificare le sue condizioni dopo l’inaspettata eliminazione di Nishikori nel torneo di Madrid.
In meno di dieci minuti il Centrale del Foro Italico viene invaso, tutti vogliono assistere al primo allenamento di Roger che in tutto durerà meno di 40 minuti, giusto un omaggio per il pubblico in cui trova spazio un pallonetto eseguito con un inedito rovescio a due mani che scavalca il suo “sparring partner”. Già, dalle tribune in molti indicano quel ragazzone alto due metri come “lo sparring di Federer”, senza rendersi conto che in realtà è Kevin Anderson, il numero 27 del mondo.
Quella di Anderson è, infatti, una storia nata dalle retrovie, senza fare particolare clamore. Da lunedì ha raggiunto il suo miglior piazzamento in carriera (14 del ranking) grazie all’ottima finale del Queen’s e adesso sembra accendersi qualche riflettore su di lui, soprattutto in vista dell’imminente edizione di Wimbledon.
Un avanzare silenzioso reso possibile da diversi fattori tra cui emerge l’impressionante costanza di risultati. Da più di due anni è nel giro dei top 20, un traguardo raggiunto attraverso diversi piazzamenti negli appuntamenti più prestigiosi del circuito, accompagnati anche da numerose partite vinte nei tornei di categoria minore. L’anonimato in cui si è sviluppata questa crescita è stato reso possibile solo grazie alla mancanza di una vetta, un risultato roboante a tal punto da imprimere il suo nome nella testa di tanti appassionati.
Nel tornei dello Slam Anderson non è mai andato oltre agli ottavi di finale (raggiunti in ben sei occasioni) e scendendo di categoria si trova qualche comparsata nei quarti dei Master 1000 e niente di più. Il motivo di questi numerosi stop è molto semplice: ad Anderson manca quella spinta in più necessaria a battere un top 10 nelle fasi cruciali dei tornei più importanti.
Per capire meglio questo limite si può prendere un dato molto importante che riguarda i match giocati contro dei top 10: per 43 volte su 51, Anderson è uscito sconfitto. Inoltre le sue ultime 4 vittorie contro avversari di questa categoria hanno avuto una sola vittima ripetutamente incontrata in meno di un anno e mezzo, ovvero Wawrinka.
Appare quindi evidente come Anderson sia particolarmente bravo a portare a casa i match alla sua portata e al contrario trovi grosse difficoltà con avversari più quotati di lui. Un’analisi che deve essere approfondita ragionando sul suo tennis.
Dall’alto dei suoi 2,03 metri, Anderson appartiene alla categoria dei pivot del tennis, capitanata da Isner e Karlovic: la loro grande arma è anche, paradossalmente, il loro limite.
Karlovic è eccellente al servizio ma inguardabile da fondo campo, inoltre la sua struttura fisica si è rivelata nel tempo piuttosto vulnerabile a infortuni che hanno interrotto diverse volte la sua carriera. Con Isner, invece, si sono visti dei passi avanti soprattutto negli spostamenti laterali, ma le sue difficoltà contro gli ottimi ribattitori di oggi rimangono, non a caso l’americano oltre a qualche comparsata nella top 10 e due finali (perse) nei Master 1000 non è andato.
Nei confronti di questi due giganti Anderson paga qualche centimetro in meno, ma resta comunque su vette impressionanti. Se guardiamo alla sua agilità, invece, si nota subito come sia stato fatto, in particolar modo negli ultimi anni, un lavoro molto intenso per coprire al meglio tutte le zone del campo.
Nel complesso il tratto comune di questi tennisti, da cui Anderson non può esimersi, è la terribile noia dei loro match, in modo particolare quando la superficie è veloce. Questo aspetto indubbiamente non aiuta l’affezione del pubblico e alimenta la figura di anti-divo che riveste Anderson.
Neanche la sua figura ibrida lo aiuta. Originario del Sudafrica, la sua maturazione tennistica è avvenuta negli Stati Uniti (dove tutt’ora risiede), questo lo ha portato ad abbandonare la sua squadra di Davis nel 2011 e concentrarsi unicamente sulla sua carriera di singolare. Alla sua immagine non si riesce a legare nell’immediato il concetto di appartenenza, soprattutto ad un terra che proprio sull’appartenenza ha condotto le sue più importanti battaglie.
La gloria tennistica il Sudafrica l’aveva raggiunta nel 1974, in pieno regime di apartheid, con la vittoria della Coppa Davis, mentre ricordi più nitidi possono portare allo storico sesto posto del ranking raggiunto da Wayne Ferreira nel 1995. Anderson va ad inserirsi in questo vuoto e anche se queste vette sembrano irraggiungibili, può comunque pretendere ancora qualcosa di più dalla sua carriera.
Veniamo ai tornei minori. Si era fatto un accenno sulla sua natura ibrida: Anderson è nato a Johannesburg e vive a Delray Beach, Florida. Il caso vuole che proprio in queste città abbia vinto i suoi due tornei del circuito ATP, rispettivamente nel 2011 e 2012.
I maligni potranno far notare che la vittoria a Johannesburg, in realtà, è figlia di un tabellone da challenger in cui l’avversario più alto in classifica incontrato era Mannarino (67 del mondo in quella settimana), mentre a Delray Beach in finale ci arrivò uno sconosciuto Matosevic dalle qualificazioni – senza dimenticare però che in quel torneo fu battuto anche Isner. Ma allo stesso tempo è bene chiarire che quelle vittorie furono indispensabili per portare Anderson nella top 50.
Ricollegandoci alla parte introduttiva del sudafricano e alla sua condizione di top 20 abitudinario, è bene sottolineare come i tornei ATP 250 e 500 siano stati ossigeno costante per la sua classifica, senza però tralasciare un altro limite: le 7 finali perse consecutivamente dal 2013 ad oggi.
Ora, nessuno vuole augurare ad Anderson di vivere le strisce negative che hanno caratterizzato le carriere di Potito Starace e Julien Benneteau, ma l’incapacità di vincere un torneo una volta arrivato fino in fondo può dire tanto sulla personalità di un tennista.
Forse questo può essere lo snodo per capire la straordinarietà di questo best ranking settimanale, arrivato in sordina alle porte di Wimbledon. Anderson ha spinto il suo tennis fino alla massima velocità, con i mezzi che aveva, ecco perché il momento della verità arriverà già dal prossimo lunedì, dove ci vorrà sicuramente qualcosa in più di quello che ha dimostrato in questi anni.
Sarà capace di alzarsi dalla sella e scattare o rimarrà solo un ottimo piazzato?
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