di Federico Mariani
Negli anni di piombo del tennis maschile, ordinati da gerarchie e categorie ben marcate, c’è ancora chi è diverso, chi esula dalla massa, chi si erge quasi a ribelle come a rappresentare una (piacevole) falla nel sistema. E’ il caso di Nicolas Mahut, trentatreenne di Angers, che come gli altri proprio non vuole essere, un anarchico con racchetta.
Mahut ha un tennis ormai desueto, superato, un talento anacronistico, un fisico insufficiente per il Gioco. E’ giusto riconoscere come il transalpino durante il corso dell’anno sia ormai divenuto un tennista mediocre, quasi mai in grado di competere nel circuito maggiore come testimonia la prolungata assenza tra i primi cento giocatori del mondo. Quando, tuttavia, arrivano i primi caldi ed il circuito Atp torna ad abbracciare per un misero mese i verdi prati europei tutto cambia: lo spettatore viene travolto da un’inevitabile freschezza dopo mesi trascorsi ad assistere a lotte titaniche sul caro mattone tritato, e Mahut viene investito da nuova linfa, il suo essere ritrova finalmente colore, il suo gioco torna ad essere tremendamente armonioso quanto letale.
E’ successo così a Den Bosch, graziosa cittadina al sud dell’Olanda dove ogni anno si disputa il Topshelf Open nella settimana che inaugura la breve (ma intensa) stagione su erba. Mahut ha bissato l’impresa già riuscitagli nel 2013 ed ha incamerato quest’anno il suo terzo titolo sul circuito maggiore, tutti ovviamente carpiti sui prati. Come due anni fa, il francese è riuscito ad alzare il trofeo iniziando il proprio cammino dalle qualificazioni disputando (e vincendo) quindi otto incontri durante i quali ha bastonato tutti cedendo appena due set, impreziosendo il tutto con la pregevole ed addirittura facile vittoria in finale su David Goffin, uno dei talenti più puri del circuito.
A vederlo Nicolas pare un giocatore di trent’anni fa ibernato in un’improbabile cella frigorifera e scongelato in questi anni, in questo sport così maledettamente diverso da quello che fu. Uno sport in cui il suo modo di intrepretare il gioco è perdente, uno sport in cui il suo fisico troppo normale è un evidente handicap, uno sport in cui attaccare in back lungolinea e disegnare la stop volley conta molto poco se poi non si riesce a tenere la diagonale per 4/5 bastonate consecutive. E’ tutto vero fatta eccezione per cinque settimane l’anno, il periodo nel quale il talento di Mahut non torna solo ad essere utile ed attuale, ma si rende necessario. Ammirare il francese danzare con sotto i piedi la soffice erba è una delizia: l’istinto ruba il posto all’ordine, la fantasia alla tattica. Non ci sono più schemi preorganizzati da rispettare o diagonali da tenere, c’è solo attaccare e buttarsi avanti e poi inventare. Ogni situazione è diversa, ogni soluzione è meravigliosa che sia vincente oppure no.
Con la scomparsa (sportiva) di Llodra, Mahut è diventato forse l’unico superstite di una razza ormai estinta, quella degli erbivori. L’evoluzione (?) del gioco ha reso tale passaggio inevitabile ed anche l’erba non fa eccezione come dimostra il logorio dei prati nei pressi della linea di fondo e la superficie pressoché intonsa sotto rete, elementi che marcano la resa dell’ultimo baluardo del tennis vintage, quello dei gesti bianchi. Ora di bianco restano solo gli outfit che il dress code di Wimbledon impone nel rispetto di una tradizione che forse davvero non morirà mai.
Mahut però non si arrende perché è ancora un ribelle e lo sarà per sempre. Poco conta se durante l’anno fioccano le sconfitte, se viene schiacciato da chi possiede neanche un quarto del suo talento, se il suo ranking ha tre scomode cifre. Poco conta perché durante quel mese che fa da anticamera all’estate Nicolas si sente libero, forte, geniale e vederlo giocare è fantastico.
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