di Luca Brancher
Martedì 26 Maggio, 2015, Idanha-A-Nova, Portogallo, primo pomeriggio. Se siete degli assidui frequentatori di questo sito, la storia di Carlos Boluda-Purkiss, l’ennesima riprova che predire un grande futuro ad un tennista proveniente da una determinata area geografica esclusivamente perché in quel medesimo frangente c’è qualcuno che, nato all’interno degli stessi confini, sta compiendo grandi gesta – e le tentazione di riempire righe di giornale con l’etichetta il “nuovo X” diventa incommensurabilmente forte – vi sarà di certo nota, grazie alla recente intervista che il buon Paolo Silvestri gli ha riservato. Al di là che di Rafa Nadal, in un giocatore che a fatica, anche a causa di infortuni invero, emerge dal mondo dei future c’è ben poco da rintracciare, l’attualità racconta di un tennista che nei tornei cui prende parte riesce ad avere una certa continuità. Dopo la finale della precedente settimana, persa contro quello che a questi livelli pare essere un discreto rullo compressore, lo spagnolo di origini bulgare Georgi Rumenov Payakov, Carlos si è presentato al via della nuova tappa lusitana da 10.000$ di montepremi, ed al primo turno avrebbe dovuto affrontare lo statunitense Justin S. Shane, tennista con un passato alla Virginia University. L’incontro, che apparentemente si sarebbe dovuto concludere con un esito piuttosto inequivocabile a favore dell’iberico, a maggior ragione al termine di un primo set che gli aveva arriso al tie break, dopo aver recuperato una situazione difficile, si complicava a tal punto che lo yankee coglieva ben sette giochi consecutivi, a cavallo tra seconda e terza frazione, che gli regalavano un vantaggio di un break nel set decisivo. Qui il destino si mostrava avverso al povero Shane, che non sfruttava varie situazioni di vantaggio – 4-1 15-15, 4-2 40-15, 4-3 40-15 – veniva rimontano ed infine sconfitto per 7-5. Ed un altro incontro senza gloria andava terminando per Justin, che, per quanto i dubbi sull’effettiva validità di questa sua tournée fuori dagli Stati Uniti avvampassero, non poteva di certo essere completamente scontento, causa un match, non suo, andato in scena meno di 24 ore prima. Non in Portogallo però, in Texas.
Lunedì 25 Maggio, 2015, Baylor University, Waco, Texas, Stati Uniti. Nella geografia tennistica NCAA l’università di Baylor, che ha sede in Texas, a Waco, ha una forte connotazione teutonica, non a caso alla metà dello scorso decennio, a laurearsi campioni nel campionato NCAA di singolare, furono due tennisti tedeschi che frequentavano proprio l’ateneo texano: Benjamin Becker e Benedikt Dorsch. Lo sport della racchetta col tempo ha assunto sempre più importanza, a tal punto che esisteva il desiderio recondito di ospitare prima o poi le finali del campionato NCAA, ma per poter formulare un’offerta concreta a chi di dovere, era necessario che venisse prima colmata una lacuna fondamentale: mancavano delle strutture indoor. Ogni qualvolta cadeva qualche goccia, i ragazzi e le ragazze erano costretti a spostarsi 73 miglia a nord per poter completare le loro sessioni d’allenamento. Di sicuro non è il freddo o la pioggia uno dei problemi storici di quella parte del mondo, ma ai vertici della NCAA questo aspetto interessava eccome, era una conditio sine qua non per concedere tale privilegio. Espletato questo, con la creazione del Jim and Nell Hawkins Indoor Tennis Center, Waco e la Baylor University attendevano di poter entrare a far parte del circuito di circoli che potevano ricevere tale incarico e, quando, nell’autunno del 2013, la commissione si riunì per deliberare le date e le location delle edizioni delle finali del quadriennio 2015-2018, in molti speravano di poter essere scelti, ma nemmeno i più ottimisti avrebbero potuto augurarsi che non solo Baylor era nel novero delle prescelte, ma addirittura per la prima data disponibile: maggio 2015. E non vorrebbero di certo fermarsi qui “Se avremo un barlume di speranza, faremo un tentativo già per l’edizione del 2019”. Ambiziosi, tanto da augurarsi un successo di pubblico, forti di biglietti con prezzi non superiori ai 10 euro “Se vuoi competere con centri come Tulsa o Winston-Salem, dove il tennis è abitualmente seguito, sai che la NCAA valuterà con grande favore l’eventuale affluenza in massa.” E poi c’è pur sempre un torneo, la qualità del quale determina il successo dell’edizione stessa.
NCAA Singles’ Championships 2015. Se nel femminile il trofeo è finito nelle mani di Jamie Loeb, che ha sconfitto nell’atto conclusivo la canadese Carol Zhao, a livello maschile c’era grande attesa perché un taboo sembrava destinato a cadere. Wake Forest, università che non aveva mai avuto grande competitività nel tennis, avrebbe potuto fregiarsi del primo titolo NCAA della sua storia. Non quello più prestigioso a squadre, chiaramente, finito per la seconda volta in tre anni nella bacheca della Università della Virginia, bensì quello del singolare maschile, ambizione resa palese dall’aver ingaggiato lo scorso autunno uno dei prospect più promettenti dell’interno Nord-America, nonché l’unico rimasto ancora legato alla tradizione scolastica a stelle e strisce, Noah Rubin. Tra lui ed il titolo, lunedì scorso, e la conseguente wild card per lo U.S. Open 2015 destinata a quei giocatori della USTA che ottenessero tale alloro, c’era un atleta proprio della squadra campione, Ryan Shane: curiosamente Rubin, in semifinale, si era sbarazzato di un compagno d’ateneo dello stesso Shane, Thai-Son Kwiatkowski. Le prime battute della finale confortavano chi vedeva Noah destinato alla vittoria, tanto che i primi cinque giochi si rivelavano favorevoli al nativo di New York, ma sul 5-2 si palesava un fattore che cambiava le forze in campo, proprio quello che prima avevo definito come poco considerato: la pioggia. E che pioggia, un vero e proprio tornado – propaggine di quello di cui diffusamente si è discusso sugli organi di informazione in questo periodo – che bloccava il confronto per un’ora e obbligava alla prosecuzione proprio all’interno di quella struttura che era stata fondamentale per la realizzazione di tale evento, i campi indoor. Vinta la prima frazione per 6-3, Rubin riusciva a comandare anche nella seconda, ma non chiusa in proprio favore la contesa nonostante avesse avuto sulla racchetta il servizio sul 5-4 per farla propria, subiva il ritorno di Shane, che, vinto il tie break, faceva la parte del leone nel 6-1 del terzo e decisivo set. “Posso recriminare quanto voglio, ma la mia occasione l’ho avuta e l’ho sprecata, devo conviverci, è lo sport”. Ah, Shane – Ryan – è il fratello di Justin Shane. E senza Justin, tutto questo non sarebbe accaduto.
Virginia, città indipendenti, primi Anni ‘90. L’idea di Jack Shane non era così originale, e soprattutto non è nemmeno così noto quale fosse l’intento, sta di fatto che questo giovane signore residente in una di quelle città indipendenti della Virginia non troppo distanti dal District of Columbia, nella contea di Fairfax, decise di costruire, nel giardino di casa, un campo da tennis rigorosamente in har-tru, pochi mesi prima che il suo primogenito, Justin, venisse alla luce; due anni e un mese dopo, toccò a Ryan rilasciare il primo gemito. Siamo nell’aprile del 1994, gli Stati Uniti sono ormai prossimi ad ospitare un’edizione storica, almeno per loro, dei Mondiali di Calcio, ma in casa Shane questo avvenimento non è poi ritenuto così interessante: lo sport di casa è appunto il tennis. I ragazzi sul campo da gioco ci passano ore e ore, per quanto ricordino in famiglia, ed è in questo modo che il tennis diventa una concreta possibilità nelle loro vite, non solo uno svago. “Avere un campo in casa è stato il modo migliore per continuare a migliorarsi, ogni giorno provavamo i colpi da fondo e i movimenti.” Ricorda Justin, che precorrendo i tempi data l’anzianità precedette il fratello nello iscriversi alla J.E.B. Stuart High School di Falls Church, dove cominciò a far vedere come le sue qualità tennistiche erano una rarità nel nord del Virginia. Presto detto, sul cammino di Justin capitolò Brian Boland, che da inizio secolo è head coach alla U.Va. (University of Virginia), molto abile nel reclutare risorse all’interno del territorio di competenza. Justin divenne un Cavalier nell’autunno del 2010 e col tempo si ritagliò un posto in squadra, dapprima come doppista assieme a Julien Uriguen – “la seconda coppia migliore di tutto il Paese” stando a Boland – poi da affidabile singolarista, per quanto il suo contributo non si sia limitato al campo, poiché risultò decisivo affinché il fratellino si trasferisse con lui a Charlottesville, nell’ateneo fondato due secoli orsono da Thomas Jefferson. Non è una cosa scontata “Spesso i fratelli non amano andare allo stesso college, ma preferiscono prendere strade differenti, per provare a ritagliarsi i propri spazi. Con loro è stato diverso. Justin si era trovato bene da noi, ha insistito affinché Ryan lo seguisse, ed inoltre era Ryan stesso che voleva raggiungere il fratello.” Così è accaduto, nel 2012 i fratelli erano ancora assieme, a calcare i campi ora dopo ora, come quando erano piccoli, nel tentativo di migliorarsi. “Il legame che hanno tra di loro è qualcosa di grandissimo valore su cui entrambi potranno contare per tutta la vita.
Charlottesville, 2012-2014. Cresciuti assieme, sì, ma dotati di tennis con alcune importanti differenze: Ryan gioca il rovescio ad una mano, mentre Justin è un più moderno bimane, che poggia proprio su questo colpo per acquisire i punti, a differenza del fratellino che va alla ricerca delle vittorie grazie ad un dritto molto esplosivo. La crescita nel biennio di Ryan è entusiasmante, come ricorda lo stesso Boland “Inizialmente non era nemmeno certo di avere un posto come studente del primo anno, in squadra, capitava fosse una riserva. Ryan però si è mostrato un tennista con una capacità di assorbire i consigli dei coach molto elevata, ha una maturità incredibile ed è un giocatore molto facile da allenare.” Nel giro di due anni forma una coppia molto insidiosa con Justin, e col tempo si guadagna un posto da titolare, diventando un tennista fondamentale, tanto da essere il quattordicesimo giocatore della storia a conquistare nello stesso anno il doppio titolo, in singolare e a squadre – in questo gruppo sono inseriti giocatori che vanno da John McEnroe (1978) a Steve Johnson (2011-12) – il tutto sempre a Waco, a distanza di cinque giorni. “Non è a parole facile esprimere quello che sto provando. Con Rubin avevo già giocato e perso, l’inizio della partita mi aveva lasciato interdetto, ma fortunatamente sono riuscito a spuntarla. E’ una sensazione magnifica.” Sensazione che si tradurrà in una wild-card che ad agosto vorrà dire U.S. Open: ma è ancora presto per pensare a quello. Justin, impegnato in Portogallo, non avrà potuto che gioire alla notizia della vittoria del fratello, e magari prendere coraggio dal doppio alloro, sebbene questo non sia stato sufficiente per avere lo slancio necessario per superare definitivamente quel Carlos Boluda-Purkiss mai domo.
Falls Church. Se Ryan sorride, dunque, Justin non può fare altrettanto. Nel febbraio del 2014 era riuscito a qualificarsi per un avvenimento challenger, quello di Dallas, nel quale aveva eliminato buoni giocatori come il connazionale Dennis Novikov e il brasiliano Wilson Leite, ma da quando ha lasciato la scuola, e sono passati ormai dodici mesi, sarebbe stato lecito attendersi qualcosa di più di quell’attuale gravitare attorno alla 1000esima posizione della graduatoria mondiale: purtroppo nemmeno la scelta di provare a sfondare in Europa, prima in Grecia, poi in Portogallo pare aver dato i suoi frutti – due sconfitte contro Erik Crepaldi, al secondo turno ed ai quarti, ad Heraklion, due primi turni in terra lusitana – nonostante a soli 23 anni il meglio dovrebbe ancora venire. Di sicuro, nonostante certi paesaggi delle isole greche te lo lascino credere, la carriera professionale di Justin è attualmente abbastanza lontana dal Paradiso. E, a proposito di Paradiso: il J.E.B. Stuart High School, frequentato dai fratelli in preparazione dell’avvento alla U.Va., è una struttura all’avanguardia, che ha ricevuto notevoli riconoscimenti ed ha addirittura ospitato, nell’anno 2005, un discorso dell’allora presidente George W. Bush. Negli anni settanta a camminare all’interno di quelle mura c’era anche la protagonista del film “Paradiso Perduto”, Julianne Moore, il cui primo marito, il produttore John Gould Rubin, nessun legame a con quel Noah, finalista a Waco. I legami col mondo del cinema, o per meglio dire della tv, non si concludono però qua: i ragazzi Shane sono nati e cresciuti a Falls Church, città che ha ispirato la scrittrice Lisa J. Smith, nell’ambientazione del suo romanzo The Vampire Diaries, che nella trasposizione televisiva è diventata Mystic Falls: sempre in Virginia, sempre una città alto-borghese – Falls Church all’ultimo censimento è la cittadina col più alto reddito pro capite degli interi Stati Uniti d’America. Certo, pensare che nella trama ci sia la storia di due fratelli apparentemente molto diversi lascia piuttosto interdetti, ma mai quanto il sottoscritto quando, nel tentativo di dare un senso alla storia, rileggendo tra le prime righe scritte all’interno di una carrozza di un treno, si è accorto che la persona seduta al proprio fianco stava rifinendo una tesi che tra i temi principali aveva proprio il telefilm di cui sopra. E mi rendo conto di quanto le trame possano ingarbugliarsi non solo all’interno di uno stesso articolo, ma anche tra tesi universitarie e pezzi sportivi che nulla avrebbero da condividere.
Sottotitoli per Lodi. Quella tesi trattava la qualità dei sottotitoli che determinati siti mettono a disposizione per permettere a coloro i quali non abbiano grande confidenza con la lingua inglese di fruire dei suddetti telefilm in lingua originale. Titoli e non sottotitoli sono invece quelli che stanno riempiendo la vita di Ryan Shane, ma non quella di Justin: che la fratellanza possa superare anche quest’unico impedimento? A Lodi, questa settimana, potremmo avere una piccola anteprima, dal momento che Justin sarà tra i partecipanti. E se saranno rose…
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