Di Federico Mariani e Giosuè Perri
Gli Internazionali BNL d’Italia appena passati agli archivi lasciano in dote un trepidante ottimismo figlio del ritoccato record di presenze (e di incassi), uno sguardo al futuro che per molti suona come una minaccia (trasferimento dallo storico complesso del Foro Italico al freddo Fiumicino), ed anche una buona dose di interrogativi circa la qualità e la quantità dei neofiti della racchetta, accorsi numerosi come non mai a Roma.
Il boom al botteghino romano è un dato assodato, certo, incontrovertibile. Lo dicono i numeri che recitano un incremento del 9.4% rispetto al già straordinario 2014, per un totale di 193.940 spettatori contro i 175.697 dell’edizione passata. I numeri, tuttavia, sono freddi fotografi e non riescono a cogliere ogni sfaccettatura di una vicenda che non può esaurirsi col mero dato sui paganti. Percorrendo il bellissimo Viale delle Olimpiadi e girovagando per i campi (secondari e non) si impara a conoscere lo spettatore medio. Quello che va affannosamente a caccia dell’autografo dello sparring partner della Wozniacki (?), ma che allo stesso tempo non riconosce Martina Hingis. Quello la cui partita preferita è quella all’ombra. Quello, per intenderci, per cui “Federer è il tennis cièèè” (cit.). Ammirando quindi tale pubblico, copioso sì ma anche decisamente inesperto e poco avvezzo al tennis inteso come spettacolo live, è legittimo interrogarsi sul rapporto qualità/quantità, rapporto che gode solitamente di improporzionalità. E’ positivo per l’amante del tennis la tanto inflazionata crescita del movimento? E, relativamente agli Internazionali, lo spettatore può ritenersi soddisfatto del crescente successo di pubblico a Roma? Certamente non esiste una risposta univoca.
Sono, però, tante le domande a sorgere spontanee: perché il tennis è uno sport che va oltre il tifo da stadio, è uno sport che non si ferma alle apparenze e che, nella maggior parte dei casi, vede le sue uniche diatribe nell’eterna, incompiuta e inutile discussione “Federer o Nadal”? Per quanto fastidiose, restano comunque isolate e poco amate da chi, ogni giorno, mastica tennis a tutti i livelli. L’esempio più calzante, pur parlando di due tornei completamente diversi per importanza e valore, è quello tra il Challenger che si gioca al Garden proprio nella settimana antecedente al Masters 1000 e, appunto, quest’ultimo. Ingresso libero, pubblico cosciente, educato e rispettoso. Consapevole di quello che sta guardando e capace di godere delle partite senza rumoreggiare ad un errore o ad un doppio fallo dell’avversario azzurro.
L’esperienza al Foro Italico, talvolta, scade nell’indecente. Quando il tifo sfocia in maleducazione, non perde solo chi c’è in campo, perde un movimento intero: perde una Nazione. E allora, il Pietrangeli strapieno di “tifosotti” che schioccano le dita prima di un servizio di Berdych o Dimitrov, che pubblicità può fare? Un pubblico cui l’unico interesse è essere all’evento piuttosto che viverlo, che genere di migliorie può dare? E’ indubbio il fatto che più spettatori portino più soldi, e che questo coincida con maggiore qualità nel lungo periodo sempre che tali fondi vengano reinvestiti nel movimento e ciò che ne concerne, ma a quale prezzo? Se il rischio è quello di lasciar fuori dai campi persone veramente interessate allo spettacolo che la manifestazione ha da offrire? Se per entrare sui campi secondari è necessario fare a spallate, c’è qualcosa che non va. Ovviamente, non tutto è da buttare, anzi. Da una parte fa un immenso piacere vedere sempre più uomini e donne, ragazzi e bambini affascinati dalla pallina gialla, fa piacere vedere il trasporto che il pubblico ha mostrato nel seguire le gesta di Fabio Fognini, ma l’approccio al momento resta molto più simile mondo pallonaro che ancora permea la società italiana. E allora l’auspicio migliore per il tennis e le sue nuove leve è che questo sia solo l’inizio, una base embrionale da cui partite per plasmare una futura cultura. Ormai è chiaro come il tennis abbia abbandonato la nicchia per approdare al mainstream anche in Italia, e ciò non è necessariamente un male ma neanche un bene.
Perché, come spesso accade, la quantità non coincide con la qualità.
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