È il giorno della gran finale e nel Real Club de Tenis Barcelona, sede storica del Trofeo Conde de Godó, si respira aria di festa. Pullulano i vip e le personalità dello sport iberico di ieri e di oggi, come Miguel Induráin o Gerard Piqué, oggi in versione quadretto familiare con Shakira e rampollo. È la 63ª finale e sono presenti moltissimi dei giocatori spagnoli, ben tredici, che in questi anni hanno trionfato, da Andrés Gimeno fino al pluridecorato Rafa Nadal, e per l’occasione viene consegnato a Joan Gisbert un trofeo per le sue nozze d’oro con il torneo, che vinse nel ’65.
Quest’anno, per cercare di impedire la doppietta di Kei Nishikori c’è un avversario che ha sorpreso tutti con un tennis bellissimo ed elegante, solido ed incisivo, duttile ed intelligente: Pablo Andujar. Nessuno poteva immaginare che dopo un 2015 disastroso, con il misero bottino di otto uscite al primo turno e tre al secondo (e la conseguente discesa al posto numero 66 del ranking), potesse riuscire nell’impresa di battere Ramos, Leo Mayer, ma soprattuto, López, Fognini e Ferrer. Sarà o non sarà un caso, ma da appena un paio di settimane Andújar ha cominciato a collaborare con Albert Portas e Germán Puentes, gli ex pro ora in società nella Ad in Puentes-Puertas Tennis Academy. Portas, ex top 20 e finalista nel Godó del ’97, lo sta seguendo più da vicino e in un’intervista prima della finale ha detto che ha cercato di lavorare soprattutto sulla fiducia, con l’idea di “fargli di nuovo credere di essere un giocatore”. Il morale e l’autostima dovevano essere quindi proprio a terra, e il cambio di coach, dopo la lunga collaborazione con David Sánchez, pare quindi aver contribuito, almeno per il momento, a uno sblocco psicologico più che a una ricerca di cambi tecnici. Acquista in questo senso più consistenza quanto ha raccontato ai microfoni di Teledeporte il grande Álex Corretja, che a Barcellona è naturalmente di casa e può aprire tutte le porte, comprese quelle degli spogliatoi. Ha così raccontato di avere scambiato poco prima della finale due parole con Pablo, che si stava sciacquando il viso davanti allo specchio. Al “Come va?” rivoltogli dall’ex numero due del mondo, ha risposto serenamente: “Sono qua, a gestire le mie emozioni”.
Molti non addetti ai lavori hanno avuto modo di vedere in questi giorni di ribalta un ottimo giocatore che forse conoscevano solo di nome, reso “invisibile” come molti spagnoli dall’ingombrante presenza di Nadal. Nato a Cuenca, nella regione centrale della Castilla-La Mancha nel 1986 (quindi della stessa leva del campione di Manacor), Pablo si mise in luce fin da giovanissmo raggiungendo il numero 5 nel ranking juniores nel 2004, anno in cui vinse tra l’altro in coppia con Marcel Granollers il doppio al Roland Garros, passando anche involontariamente alle cronache rosa per una presunta love story con Kim Klijsters. Poi il passaggio al professionismo, con più che buoni risultati sia a livello nazionale (campione di Spagna individuale nel 2010 e a squadre con il CT Valencia, nel 2008) sia internazionale, con tre ATP 250 (Casablanca 2011 e 2012 e Gstaad 2014) e un best ranking al numero 33 raggiunto nel 2012. Si tratta di un giocatore dotato di un ottimo bagaglio tecnico e di una buonissima visione di gioco, che quando è in palla e in fiducia sulla terra può battere chiunque, e a cui probabilemente manca quell’asso nella manica che hanno solo i grandi campioni, vale a dire il saper vincere anche quando palla e fiducia latitano.
Probabilmente consigliato da Portas, Andujar ha deciso, dopo l’ennesima sconfitta stagionale a Casablanca, di non andare a Montecarlo e di concentrarsi per preparare al meglio il torneo di casa, forse un altro fattore che gli ha permesso di esprimere appieno il suo tennis in questa settimana. E che tennis ragazzi! Il servizio non è mai stato né sarà il suo punto forte, ma lo si è visto molto aggressivo in risposta, solido nei colpi a rimbalzo, ottimo nei drop-shot (e in questo forse qualcosa lo deve a Portas, grandissimo “smorzatore”), abile nei cambi di ritmo e risolutivo a rete. E con le idee chiare sul da farsi. Non si battono a caso, e in tutte e tre le occasioni in due set, un Feliciano López che a trent’anni suonati sta vivendo uno dei suoi migliori momenti, Fognini, per quanto piuttosto offuscato dopo la vittoria su Nadal, e un gladiatore come Ferrer, con i quali tra l’altro non aveva mai vinto.
La finale viene affrontata bene, sia psicologicamente che tatticamente. In entrambi i set inizia brekkando l’avversario – che tra l’altro aveva già battuto nel 2013 a Madrid, dove aveva raggiunto le semifinali – fedele alla strategia già in parte seguita contro Ferrer: aggressività in risposta e variazioni di ritmo, cercando sopratttuto di mettere pressione sul diritto di Nishikori, sorprendendolo spesso con quella che è stata forse una delle armi meglio usate in questi giorni, il rovescio lungolinea. Alla fine cede però con un doppio 6-4 al giocatore giapponese, che non fa nulla di straordinario, ma sa essere risolutivo proprio nei momenti chiave. Una sconfitta che credo importi relativamente di fronte a fiducia e motivazione ritrovate, e a un nuovo ranking (42), che lo riporta ad una manciata di punti dalla sua migliore posizione. Sarà interessante a questo punto vedere che cosa sarà capace di fare nel prosieguo della stagione sul rosso, dopo questa settimana che ha visto, se pensiamo anche al successo di García-López a Bucarest, i riflettori puntati sui “gregari” (si fa per dire) del tennis iberico.
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