A che ora è la fine del mondo? Il mondo per come lo conosciamo noi comincia a finire un pomeriggio di primavera. È il 31 marzo 1983, e al secondo turno del torneo di Montecarlo, Bjorn Borg deve salvare, al servizio, un match point contro Henri Leconte. La risposta del francese è elegante, il secondo colpo dell’Orso un po’ corto. Leconte approccia la rete con un rovescio tagliato dall’alto verso il basso sul rovescio di Borg, che si piega per giocare un passante incrociato. Ma la palla esce di una ventina di centimetri. Il bambino che diventa subito uomo, che prima di compiere vent’anni ha già l’aura di Kennedy a Hyannis o di Paul McCartney a Liverpool, che non sopporta la sconfitta pur avendola incontrata poco, che ha lasciato il tennis per cercare la sua libertà e non essere solo il numero 2, perché il secondo è il primo dei perdenti, lascia con un errore.
Il mondo per come lo conosciamo noi, in realtà, aveva già cominciato a finire un anno prima. Respinto per la quarta volta a New York, Borg si prende un anno sabbatico, un anno lontano dalla storia. Un campione fuori dal tempo, che riporta l’orologio indietro di mezzo secolo. Si mette a fare il giocatore itinerante, gira il mondo nei tornei a inviti come i grandi pro dell’era pre-Open.
E come come Fred Perry, Ellsworth Vines o Vinnie Richards, il primo big a fare il salto nel professionismo, nell’anno sabbatico non gioca gli Slam. Non ha disputato, così dice il regolamento, il numero minimo di 10 tornei del Grand Prix nei precedenti 12 mesi. Per entrare in tabellone al Roland Garros o a Wimbledon, non gli basterebbero gli 11 titoli vinti, i pezzi di storia scritti alla Porte d’Auteuil e sull’erba più ambita della cattedrale del tennis, dovrebbe superare le qualificazioni. Perfino Arthur Ashe, presidente dell’ATP, si oppone all’applicazione letterale quanto irrazionale della regola.
Solo in un torneo, Borg accetta di entrare, anche attraverso le qualificazioni. Torna in un luogo che in quel momento lo rappresenta, in cui un campione un po’ fuori dalla storia può rispecchiarsi e riconoscersi, al Country Club di Montecarlo. Lo sceglie soprattutto perché il Principato è ormai casa sua, abita a Cap Ferrat, a 20 minuti di strada. Lo accompagnano i genitori, Lennart Bergelin e l’amico Onni Nordstrum, un ex giocatore di hockey su ghiaccio, in campo nell’amichevole tra veterani e giovani talenti di Malmo giocata l’inverno prima in cui Borg, ala destra dei “Vets”, segnò quattro gol.
Nel tabellone di qualificazione supera, nell’ordine, Paolo Bertolucci, lo jugoslavo Marco Ostoja, battuto 60 60 e il peruviano Pablo Arraya. Al primo turno supera in due set lo spagnolo Fernando Luna, una vittoria che lo proietta al primo momento della verità, il secondo turno contro Adriano Panatta, l’unico che l’abbia mai battuto al Roland Garros. Borg, che nonostante non giochi da mesi è ancora numero 6 del mondo, inizia come ai vecchi tempi: 62 20. Ma non sono più i vecchi tempi, l’Angelo Biondo non è più lo stesso. Perde nove game di fila, riesce comunque a portare a casa la partita, ma il risultato non cambia la sostanza. Quel ragazzo con una luce strana dentro agli occhi che qualcuno ha chiamato cattiveria anche se nessuno sa dei suoi pensieri e del suo mondo, è da un’altra parte.
L’inizio della fine è arrivato, basta aspettare il quarto di finale contro Yannick Noah, che una settimana prima ha perso 13-11 al terzo in finale dall’ungherese Balazs Taroczy. Quella con Borg a Montecarlo non è una partita, non è nemmeno un’esibizione, è una storia a sé. Lo svedese toglie il servizio al francese nel primo set, poi sbaglia tutto lo sbagliabile e oltre. Noah non perde più un punto al servizio, ma non crede ai suoi occhi. Borg è talmente disinteressato al punteggio che a un certo punto va a battere dalla parte sbagliata del campo, e in un altro momento si avvia verso la panchina prima ancora che il francese abbia colpito uno smash. “Non è stata una partita normale” ricorda Noah. “Più volte l’ho sentito fischiettare ai cambi campo”. È proprio la fine del mondo per come lo conosceva, e di sicuro in quel momento l’ex Orso si sentiva bene. Di nuovo libero.
“Era perfetto, più perfetto di tutti noi” ha ammesso Ilie Nastase. Nelle sue parole c’è un ritratto profondo e un tentativo riuscito di spiegare quel comportamento così lontano dall’immagine del campione freddo che ha ispirato gli sceneggiatori di Star Trek a dare il suo nome a una razza di umanoidi dalle potenziate capacità fisiche e mentali, ma senza più volontà individuale. “Vinceva sempre, si è stancato più di tutti noi. Alla fine ti stanchi per forza, capita a tutti, e lui ha giocato più di chiunque altro. Era davvero perfetto. Era Borg”.
Era, il fu Bjorn Borg, così preciso ed imperfetto. C’era qualcosa, in quel suo fischiettare, qualcosa che non si vedeva, eppure dentro si muoveva. Qualcosa che si stancava e che ricominciava. Nel giro di un anno, a dieci anni dall’esplosione della Borg-mania, esaltata, moltiplicata a Wimbledon dal boicottaggio delle star, qualcosa di quel Borg muore. Ma anche quello che muore qualche volta ritorna. L’incontro è sempre lì, a Montecarlo, la sua Atlantic City, teatro del suo ultimo azzardo, dove tutto si riduce a vincenti e perdenti. È il suo ultimo prezioso tentativo di stupire. È il 1991, e quando arriva con gli stessi capelli biondi, la stessa fascetta, le stesse racchette Donnay di legno c’è ancora qualche tifoso che si illude. Dimmelo ancora, sperano gli irriducibili, che tutto ritornava così com’era. Ma non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume.
E quello che arriva a Montecarlo non è Borg, è un’anacronistica maschera di se stesso, che a quei tifosi dà un solo messaggio, triste, solitario, e molto finale: questo è quel che vuoi vedere, vieni con me al carnevale.
Il decoro di un campione va in pezzi in frantumi di specchi, dietro una scia di debiti e con un codazzo di accompagnatori stonati. Ha interrotto ogni rapporto con Bergelin, ora si fa seguire da un 79enne sedicente guru di arti marziali giapponesi, Ron Thatcher, che si fa chiamare Tia Honsai e ha avuto come “adepti” anche James Coburn e Richard Burton. “Il Professore”, un altro dei suoi soprannomi, si presenta a Montecarlo con un ginocchio rotto, l’apparecchio acustico e un binocolo per guardare gli allenamenti di Borg, che scambia con Becker e Ivanisevic, anche se sta seduto in prima fila. Confessa di non capire niente di tennis e si fa accompagnare da una segretaria, cui detta una serie di appunti e, racconta Curry Kirkpatrick in un ritratto su Sports Illustrated, da due ballerine, Tanya e Doreen.
Però non vuole intorno Loredana Bertè, che intanto ha sposato Borg. “Era pazzo. Aveva in casa tre pistole e ci giocava puntandomele alla tempia. Una volta premette il grilletto. E poi mi disse che era carica. Io gli dissi: Ma sei scemo?’” ha raccontato a Claudio Sabelli Fioretti. “Io non è che ho provato la droga. Ho vissuto con uno come Bjorn Borg che era un aspirapolvere. Di droga ne viaggiavano dosi industriali. Quando eravamo all’estero, non quando stavamo in Italia. Vivevamo in un contesto nel quale questo tipo di trasgressione era normalissimo. Io in quel periodo non facevo la rock star, facevo la moglie. Era una cosa da ricca borghese. La pagava lui la roba”. E di soldi, anche per una serie di investimenti sbagliati, ne perde tanti, li perde quasi tutti. Un mese prima del torneo, per pagare i creditori, sono stati messi all’asta il suo appartamento a Stoccolma, la sua macchina, la barca e la villa a Vikingshill dove si ritirava per pescare.
Tenta anche il suicidio, così almeno si è detto e scritto, nel febbraio del 1989, anche se ha sempre smentito e parlato di semplice avvelenamento da cibo. Il giorno prima di scendere in campo per quell’ultimo, anacronistico, giro di giostra monegasco, è Loredana Bertè che si imbottisce con cento pillole di barbiturici. “Tentato suicidio o messa in scena? (…) L’opinione generale dava per scontata la seconda ipotesi” scrive Enrico Bonerandi su Repubblica. “Ma il dottor [Ezio] Omboni la pensa diversamente: Loredana Bertè ha ingerito le pillole 6-7 ore prima del ricovero, e cioè tra le 23 e mezzanotte. Chi vuole essere salvato normalmente chiede subito aiuto, o tenta il suicidio quando in casa c’è qualcun altro, lasciando in evidenza la boccette di tranquillante. La cantante invece ha ingerito le pillole in solitudine, chiamando dopo più di tre ore per dare l’allarme”. Secondo l’Associated Press, era infuriata per aver visto su una rivista francese le foto di Bjorn con un’altra donna.
Borg, che arriverà in ospedale a Milano subito dopo il match, perde al primo turno da Arrese, perderà sette partite su sette in quella grottesca appendice di carriera, senza mai vincere un set. Per un momento, scrive Peter Bodo nel capitolo che dedica a Borg in “The Courts of Babylon”, quel campione così privo di ironia e “di quella che si potrebbe definire intelligenza analitica, divenne un’anima romantica”.
Un’anima romantica che ha provato a sconfiggere la storia ma alla Storia si è dovuta inchinare, che si è avviata verso il suo Spoon River con l’epitaffio firmato dal suo compagno di allenamento in quei giorni del 1991, Jonas Svensson. “Borg è ancora il miglior giocatore del mondo con una racchetta di legno”.
Leggi anche:
- None Found