Il successore di Patrick McEnroe nel ruolo più delicato dell’organigramma USTA ha finalmente un nome, quello di Martin Blackman, il cui annuncio chiude un periodo di chiacchiericcio e indiscrezioni durato qualche mese.
Per Blackman l’approdo su una poltrona federale è in realtà un gradito ritorno visto che il fresco coordinatore del player development aveva lavorato per l’USTA dal 2004 al 2011 come direttore dello Junior Tennis Champions Center a College Park in Maryland (dove ha visto passare, tra gli altri, Madison Keys) e ideatore di un’importante rete di coordinazione tra i vari centri federali sparsi per gli Stati Uniti. Negli ultimi quattro anni invece Blackman aveva dedicato le sue competenze ed energie a un’iniziativa privata quale la fondazione di una sua Academy a Boca Raton, in Florida.
La scelta di Blackman insomma non è affatto casuale, l’USTA ha puntato su un suo uomo con un passato da professionista buono ma non superlativo (il best ranking di Blackman è stata la posizione n.158 nel 1994, annus domini Sampras e Agassi), con provata competenza nel ruolo, senza un cognome capace di attirare i media più del necessario come succedeva inevitabilmente con il meno noto dei fratelli McEnroe, ma ha puntato soprattutto su un forte sostenitore del ruolo del college nel passaggio dalla carriera junior al professionismo come ha già chiarito in un passaggio chiave della conferenza stampa di presentazione del 6 aprile scorso:
“Penso che con il chiaro cambiamento demografico dei giocatori presenti in top-100 il college possa diventare una parte molto importante della strada verso il professionismo. Se vediamo che la media degli uomini tra i primi cento ATP è sui 27 anni e quella delle donne sui 24, è chiaro che stiamo parlando di un lasso di tempo significativo per un giocatore che ha appena finito le superiori”.
Le parole di Blackman rispecchiano apparentemente in pieno l’impianto programmatico che l’USTA porta avanti praticamente da sempre con alterni risultati e se da un lato è vero che l’età media dei tennisti in generale si sta alzando, lo è altrettanto l’evidente desiderio dei giovani statunitensi a buttarsi nel professionismo subito per dedicare tutte le energie al raggiungimento dell’obiettivo di carriera. Due dei prospetti più interessanti della nuova generazione quali Jared Donaldson e Francis Tiafoe, rispettivamente classe 1996 e 1998, hanno già ufficializzato il proprio passaggio al professionismo (nel caso di Tiafoe la notizia è di pochi giorni fa) come aveva già fatto anche l’ideale capofila del futuro tennis a stelle e strisce Stefan Kozlov.
L’impopolarità di un assetto che invita i tennisti a viaggiare con il freno a mano tirato nei primi anni di carriera sembra comunque che non scoraggerà il nuovo responsabile giovani dal promuovere una crescita “ovattata” nell’alcova del tennis universitario rispetto al fuoco di fila dei circuiti minori come dice ancora con chiarezza in un altro passaggio della suddetta conferenza stampa:
So che se si liberano cinque posti in top-100 ogni anno e che l’età media è di 24 anni per le donne e 27 per gli uomini, se ho ragione allora devo essere consapevole che c’è un gap di cinque-sei anni da riempire. Per cui il problema è capire quale sia il modo migliore di far crescere un giocatore in questo lasso di tempo. Vuoi mandarli in giro per Futures e Challenger a giocare trenta settimane all’anno tra I 18 e I 24 anni o preferisci che diventino più forti e sicuri prima di ritrovarsi lì fuori?
La domanda ampiamente retorica che Blackman si pone ha un piano chiaro, quello di evitare la dispersione dell’incredibile talento che questa generazione di ragazzi americani (per non parlare delle ragazze) sta mostrando, e di tutelarne la crescita. Difficile davvero per chi scrive dire se sia giusto o meno ritardare l’ingresso nel professionismo, certo è che -come sostengono in molti- l’alto livello raggiunto ormai dal circuito juniores fa sì che i giovani più promettenti, se ben accompagnati, possono superare le sabbie mobili del circuito Futures senza troppo patirne, ma il rischio di fallire -per una nazione tennistica arrivata a dover sospirare pensando a Roddick- è evidentemente troppo alto.
Con Kozlov, Donaldson e Tiafoe già professionisti e il giovanissimo Taylor Fritz in fibrillazione (la famiglia lo spingerebbe verso il college, il ragazzo sarebbe di tutt’altra opinione) Blackman rischia di arrivare tardi e passare alla storia per essere l’uomo che chiude la stalla quando i buoi sono scappati anche se non sono pochi i talenti su cui potrà far valere la sua autorità e soprattutto le sue capacità riconosciutegli di grande affabilità ed elasticità mentale, a partire dall’ultimo campione di Wimbledon juniores Noah Rubin passando dalle sorelle Tornado e Hurricane Black fino al talento più luminoso degli ultimi anni, quella Catherine Bellis che agli scorsi US Open aveva rinunciato al prize-money valsole per l’eliminazione di Dominica Cibulkova proprio per non dover affrettare l’ingresso nel professionismo.
Valutazioni di fondo a parte, il lavoro di Blackman deve ancora iniziare e il momento dei giudizi verrà a tempo debito. Di certo l’attesa da parte del tennis americano, e non solo, è evidente: questo sport degli Stati Uniti ad alti livelli non può fare a meno.
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