di Piero Emmolo
Esistono storie di campioni che trascendono lo sport, finendo per sconfinare inevitabilmente in vicissitudini politiche e sociali. Costringono chi intende cimentarsi nel racconto di una carriera o di una vita, a contestualizzare imprescindibilmente il tutto nella peculiare dimensione storica del tempo. Un’epoca di tensioni e fermenti sociali, perennemente in bilico tra il neutralismo giolittiano e l’interventismo d’annunziano. Crogiolo ideologico, quest’ultimo, che da li’ a poco avrebbe costituito il catalizzatore di un conflitto di proporzioni inedite ed inaudite. Già Friedrich Schiller, poeta e drammaturgo del 19′ secolo, aveva più volte chiosato il suo pensiero asserendo che “ogni artista è figlio del suo tempo”. E se, con uno sforzo d’immaginazione volessimo contestualizzare nello sport questa frase, non potremmo esimerci dal riscontrare in ogni tennista degli inizi del ventesimo secolo un irresistibile e, per l’appunto, quasi artistico appeal. Per quel candido abbigliarsi in eleganti mise e quella raffinatezza dei contesti di giuoco. Per quei gesti, sgraziati all’apparenza, ma che celavano la lignea genuinità più pura e casta del tennis, prima che grafite e kevlar irrompessero prepotentemente, deturpando il nostro sport verso una robotica deriva di omogeneizzazione. Uno di questi esteti dello sport che fu è fuor di dubbio Luigi Uberto De Morpurgo. Altrimenti detto “il Barone”.
Triestino di nascita, ma italiano solo “d’adozione”, in virtù dell’annessione di Trento e del capoluogo giuliano alla Penisola solo nel 1918. Con buona dose di presunzione, debito peccato metodologico di chi s’accinge a raccontare gesta di un’epoca non vissuta e narrata solo su cronache di carta ingiallita, De Morpurgo appare il classico trait d’union tra quel campione classico, reverendo highlander di compostezza e semplicità, e il tipizzato, quasi pedantemente stereotipato tennista odierno, più ossessionato da atletismo e scienza dell’alimentazione, che da tecnicismi e varietà di gioco. Un filo conduttore, dunque, tra passato e futuro del tennis. Ma cosa può legare un uomo, figlio di un’era così lontana da noi, col tennis moderno? Le cronache del tempo sono concordi nel descrivere De Morpurgo come un vero e proprio fighter. Un atleta dotato di una carica agonistica e una tempra caratteriale che andava ben oltre l’ideale compostezza del tennis, avvertita allora quasi come un noblesse oblige dagli avventori e frequentatori di circoli del periodo. Sono prova di questa grinta diversi documenti fotografici dell’epoca, nei quali molto spesso Uberto veniva immortalato in un digrignare il viso, al momento dell’impatto, con un grintoso e quasi caricaturale cipiglio. De Morpurgo non vive di sport. Ma vive per lo sport.
Quest’ultimo, non viene infatti ancora vissuto ai suoi tempi come collante sociale o cemento culturale in un vivere consociato. Ciò avverrà solo a partire dal secondo dopoguerra, specie nel Regno Unito, paese coinvolto solo marginalmente dalla Wehrmächt nazista in scontri via terra, e su un piano terminologico prima ancora che pratico (infatti, con “sport” si indicavano pressoché esclusivamente le discipline della caccia e dell’equitazione). Lo sport, dunque, vissuto come status symbol, la cui ostentazione è spesso rivendicata quasi con tronfia risolutezza da parte di quelle classi agiate fortemente intrise degli ideali decoubertiniani e neoliberisti, la cui presenza è vivida nel melting pot dell’Impero Austroungarico. Lo sport, e il tennis in particolare, era infatti per lo più diletto delle classi aristocratiche. Per esse, era momento di svago e non meticoloso e certosino esercizio di progettualità (talvolta, oseremmo dire, esistenziale, per chi al giorno d’oggi frequenta i tornei di seconda o terza fascia). Furono diversi gli avversari e i contesti di gloria illustri nei quali il “Barone” s’è egregiamente misurato e destreggiato . Tra i primi, campioni che la storiografia sportiva ha anche solennemente appellato con un ché di letterario e cinematografico (come “I Moschettieri” Cochet e Lacoste). Tra i secondi, l’onore e la gloria di una medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici di Parigi del 1924. Ad oggi, un record che, compiuti i novant’anni, s’accinge a resistere per quasi un secolo.
Fu il primo italiano della storia ad entrare in “top ten” e a svolgere la doppia mansione di capitano-giocatore in Davis. Ebbe il merito di centrare la semifinale al Roland Garros 1930 e i quarti nel 1928 a Church Road. Poteva vantare un gioco coreutico negli spostamenti e armonico nelle trame di gioco. Uno tra tanti, dell’epoca di quelli che Tacito anacronisticamente avrebbe chiamato arbiter elegantiae. Tuttavia, agli albori della carriera, le origini nobiliari dal lato paterno non esimettero Uberto dall’arruolamento tra i ranghi dell’aviazione austro-ungarica. L’inasprirsi dei rapporti politico-diplomatici tra Austria-Ungheria e lo ” Stato-canaglia ” serbo, reo di non assumere un atteggiamento severamente repressivo verso i gruppi eversivo- oltranzisti dell’area balcanica, scatenò il primo conflitto mondiale. Uberto fu dunque indotto a solcare e planare sui cruenti cieli d’Europa durante la Grande Guerra. E chissà, se con le eliche degli Aviatik austriaci ebbe modo di incrociare le pindariche traiettorie di Roland Garros, in un tremendamente affascinante scontro ad alta quota. Tra due aviatori, ideali nemici in battaglia, ma accomunati da un avveniristico filo conduttore: il tennis.