di Marco Mazzoni
Twitter, Facebook, Instagram e social vari in questi giorni sono invasi da foto e “selfie” (termine orrendo) di giocatori e pubblico coinvolto nell’esibizione asiatica IPTL. Una manifestazione ricchissima: il montepremi è praticamente pari ad uno Slam, oltre ad ingaggi ad hoc per i protagonisti top che permette loro di far cassa in modo clamoroso, e di scoprire posti esotici unendo il divertimento in campo ad un impegno fisico modestissimo. In teoria tutto bello, tutto coloratissimo “in stile Bollywood”, tutto efficiente e funzionale a far girare soldi e parlare del nostro sport a latitudini inconsuete. Incontri assai soft, grazie ad alcune regole diverse rispetto ai match ufficiali, con in campo un mix tra campioni di oggi e vecchie glorie impegnati a sorridere a 32 denti e confezionare un prodottino “giusto”, vendibile a chi il tennis lo conosce ben poco. Just an illusion di aver assistito a chissà cosa… Tra il clamore generale, in realtà molti appassionati (mai retweettati dall’efficientissimo account ufficiale della lega) si sono lamentati del costo esoso del biglietto per il modesto spettacolo offerto, affermando di esser rimasti assai delusi e di preferire di gran lunga i tornei “veri” di Chennai, Doha, Dubai o Kuala Lumpur, per citarne solo alcuni in zona.
Di quello che sta accadendo in campo, ammetto di aver visto ben poco. Ho provato ad accendere la tv, per scaldare una grigia tarda mattinata di fine autunno; ma lo schermo mi ha immediatamente proposto un divertito Ivanisevic con una ragazza in abiti discinti che gli ballava attorno mentre attendeva di servire. Premere il bottone rosso del telecomando è stato inevitabile… e sono ripassato solo casualmente a vedere che succedeva, e per pochi minuti.
Quello che mi spinge a parlare della super lega è la dichiarazione rilasciata da uno dei suoi protagonisti, Jo Wilfried Tsonga, al quotidiano sportivo transalpino l’Equipe. Sollecitato sulle proprie condizioni dopo i problemi al polso che l’hanno condizionato nella parte finale di stagione ed anche nella dolorosa finale di Davis a Lille, Jo ha dichiarato che il problema è tutt’altro che risolto. Addirittura che la sua presenza all’Australian Open – che si giocherà tra un mese – è a rischio. “…IF I play…” ha dichiarato, facendo sobbalzare sulle sedie i pochi giornalisti che il tennis lo seguono per davvero.
Il buon Tsonga infatti in questi giorni non è impegnato in un delicato processo di riabilitazione, cercando di curarsi e di ritrovare la miglior salute per prendere parte allo Slam in cui meglio ha figurato in carriera (finale 2008, e tanto altro), ma scende regolarmente in campo per la sua squadra IPTL. E per quanto l’impegno fisico sia minimo, il francese non ha perso un solo match, per rispettare il contratto con gli organizzatori, accettando quindi di giocare nonostante un polso malmesso. Per quanto il tennis prodotto in queste esibizioni sia forse inferiore a ritmi di allenamento di media intensità, sollecitare il polso resta sempre un rischio notevole. Tra tutti gli infortuni che un tennista può subire, quelli al polso sono probabilmente i peggiori in assoluto. Oltre alla complessità strutturale delle articolazioni, sottoposte nei giocatori Pro a sollecitazioni micidiali, col polso si ha la sensibilità, l’ultimo tocco, il feeling con la palla, la chiusura del colpo. La storia del gioco è piena di giocatori che dopo seri problemi al polso hanno compromesso la propria carriera al vertice, oppure hanno preso dei “vizi” tecnici difficilissimi da dimenticare. Insomma, col polso un tennista non può scherzare. Mai.
Come giudicare le parole rilasciate da Tsonga all’Equipe? Non sarebbe corretto affermare che abbia dichiarato il falso, ossia che in realtà scende tranquillamente in campo in Asia perché sta bene, visto che ha appena detto il contrario… Ma allora perché continua a giocare? Perché si prende questo rischio? Perché non si cura, oltretutto nel momento più delicato della stagione, quello della preparazione? Easy: Money.
Non c’è altra spiegazione logica. Tsonga accetta il rischio di farsi veramente male per portare a casa una valanga di dollari, quasi più di quello che ha guadagnato in tutto il 2014, annata per lui non straordinaria eccetto la settimana irreale vissuta in Canada, quando ha messo in fila 4 top10 aggiudicandosi il secondo Master 1000 in carriera.
Sarò un romantico del gioco, ma mi riesce difficile accettare che un giocatore ancora nel pieno della sua vita sportiva, e con la potenzialità di fare imprese come quelle dell’estate scorsa e perché no provare a vincere un Slam, accetti di farsi davvero male al polso pur di onorare un contratto da nababbo e incassare una somma enorme. Il tutto aggravato dal fatto che più volte insieme a tanti colleghi, ad orologeria quando fa più comodo, abbia puntato il dito contro un tour troppo massacrante, in cui si gioca troppo e si è costretti a viaggi interminabili. Già, i palazzetti dove si gioca la IPTL sono giusto ad un tiro di schioppo dalla sua cara Francia…
Senza voler fare il moralista da quattro soldi, la situazione è limpida. I giocatori sono professionisti. E’ nata questa lega ricchissima, e molti di loro hanno ricevuto delle ottime proposte? Fanno bene ad accettare gli ingaggi, e giocare. Invece si può discutere eccome sulla convenienza tecnica della scelta, sul passare il fondamentale periodo del riposo prima e della preparazione poi giocando esibizioni in giro per il mondo, invece di focalizzarsi sulla prossima stagione. La notissima esperienza negativa di Federer a fine 2012, quando scelse di giocare in America Latina spinto da una vagonata di soldi, compromettendo la preparazione e minando le basi del suo 2013 (infatti pessimo), sta lì a testimoniarlo. Qua forse l’impegno è minore, ma sul piano tecnico i conti li faremo l’anno prossimo, nei primi mesi di tornei, valutando le prestazioni atletiche ed agonistiche dei vari giocatori oggi coinvolti. Ma tornando a Tsonga, è assolutamente discutibile l’atteggiamento del francese, che si dice “rotto”, forse costretto a saltare l’importantissimo Slam australiano, ma che pur di incassare un sacco di dollari accetta il rischio di infortunarsi ancor più seriamente e gioca la IPTL. Come quello di molti altri suoi colleghi (e colleghe) che saranno prontissimi a giustificare prossimi infortuni e momenti scadenti di forma per colpa dei troppi impegni in calendario. I nostri avi latini dicevano “Pecunia non olet”, ma forse ai loro tempi c’era meno ipocrisia…
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