di Salvatore Greco
C’erano due italiani all’Eddie Herr 2014 che sono sfuggiti ai nostri radar nel pezzo dedicato al torneo, ma a nostra discolpa i ragazzi Rimondini risultavano iscritti come USTA e quindi non sarebbe stato facile scovarli nella miriade di nomi familiari di giovani tennisti, cittadini degli States di seconda generazione. Ma nella sfortuna dello sguardo poco accorto, abbiamo avuto la fortuna di contattare la signora Rimondini che ai “microfoni” di Spazio Tennis ha raccontato com’è la vita di due giovani tennisti in Florida, ma fuori dalle grandi Academy. Sì, perché dopo un anno non troppo convincente alla Chris Evert i signori Rimondini hanno deciso di affidare le cure tennistiche dei propri figli a coach privati. “Dopo che mio marito è andato in pensione” racconta la signora Rimondini “ci siamo trasferiti in Florida per dare una svolta alla nostra vita, anche per i ragazzi, per il tennis ma soprattutto per la loro istruzione. Per un anno Pietro è andato alla Chris Evert Academy, ma non è stata una buona esperienza, adesso evitiamo le academies e abbiamo deciso di fare lavorare i nostri ragazzi con un coach privato, così possono lavorare con un gruppo ristretto di altri ragazzi e gestirsi meglio. I miei figli giocano da soli un’oretta la mattina prima di andare a scuola e poi con il maestro e gli altri ragazzi dopo l’orario scolastico, siamo contenti così anche se è oneroso”.
La scelta della famiglia Rimondini di non affidarsi alle academies è economica, ma anche tecnica. Continua la signora Rimondini: “I coach più rinomati hanno onorari decisamente oltre il nostro budget, anche di diverse centinaia di dollari l’ora, ma non è solo quello il punto. Noto che qui in Florida molti ragazzi che giocano a tennis, oltre a venire da famiglie molto ricche, studiano da casa con programmi specifici e il sistema della Florida Virtual School, in questo modo possono dedicare all’allenamento la maggior parte della giornata. Io lo trovo completamente folle, soprattutto per ragazzini di nove-dieci anni, anche perché queste –costosissime- ore di allenamento sono tutte di tennis, non c’è la minima attenzione al fitness e alla preparazione atletica. Pietro e Rachele arrivano ad allenarsi quattro-cinque ore al giorno, che sono comunque tante, ma c’è una buona parte di atletica e cura del corpo, non solo tennis fino allo stremo. Sarà che noi non ci affidiamo a un coach statunitense, ma a uno sudamericano, fatto sta che trovo che la nostra situazione dia più frutti. Pietro ormai gioca a un livello medio-alto, della sua età di significativamente più forte c’è solo Stefan Kozlov, ma insomma… stiamo parlando praticamente di un predestinato. Se gli altri americani non riescono ad avere risultati significativi, vorrà dire che il sistema di allenamento dei loro junior magari non funziona, no?”.
In effetti Pietro sta giocando un buon tennis, al suo secondo torneo ITF in assoluto, il grade4 di Boca Raton, ha ottenuto i quarti di finale e oggi nel tabellone under-16 dell’Eddie Herr ha raggiunto i quarti di finale partendo dalle qualificazioni. “Sta lavorando bene, sì” ci conferma la madre “ha messo assieme dei buoni numeri ed è stato contattato da alcuni college della Ivy League, accademicamente molto prestigiosi. Certo lui vorrebbe trovarne uno che sia di alto livello anche riguardo al tennis perché è quello che ama fare e accarezza la carriera professionistica, anche se è molto realistico a riguardo, sa che è durissima. Di certo, studiare in un college con una buona attenzione al tennis universitario significherebbe giocare con la squadra del college per un annetto e poi poter usufruire della borsa per altri anni a venire. Questo vuol dire che se la carriera pro’ non dovesse ingranare, potrebbe tornare a studiare senza aver perso troppo, un’opportunità fantastica. So che tra gli americani che oggi giocano in ATP Isner e Johnson hanno fatto questo percorso, passando dal college, quindi è una cosa che funziona, loro ne sono la prova”. Di sicuro per la madre di Pietro e Rachele, l’accesso a una buona istruzione universitaria viene prima di tutto: “Ripagherebbe di tutti i sacrifici fatti” ammette “non credevamo che sarebbe stata una scelta economicamente così gravosa, invece lo è, ma sarò contenta se tutto questo porterà i miei figli ad accedere a college prestigiosi e a ottenere le borse di studio, quando li vedrò varcare i cancelli di una grande università saprò che ne è valsa la pena, saprò di aver raggiunto il mio scopo. Comunque è dura, davvero, se avessi saputo realmente a cosa andavamo incontro forse non avremmo intrapreso questo percorso, ma ora ci siamo e quindi lottiamo per trarne il meglio, Pietro lo sa che quest’anno deve dare il massimo perché i college lo visioneranno per la scelta che dovrà fare entro novembre. Confido che lavorerà bene, lo sa e sta crescendo mentalmente, che è una cosa fondamentale”.
Per il resto la signora Rimondini ha le idee chiare: “i miei figli giocano a tennis da quando sono piccoli, quando vivevamo a Milano nostra figlia maggiore si allenava a Buccinasco, era arrivata a una classifica nazionale di 2.8, ma poi a sedici anni ha smesso. Nel frattempo hanno iniziato anche i più piccoli, li portavo con me per forza di cose non potendomi dividere tra tutti e così loro si sono appassionati e procedono. Sono abbastanza convinta che in Italia tutto questo non avrebbe potuto avere continuità sia perché accordare impegni scolastici e sportivi sarebbe stato più difficile sia perché qui in Florida giocare a tennis è una cosa incredibilmente facile, volendolo fare, ci sono campi da tennis praticamente ovunque, i miei figli si allenano letteralmente dall’altra parte della strada e questo può sembrare una cosa da poco, ma è fondamentale per fare progetti. Il fatto di andare a giocare un’ora prima di andare a scuola la mattina presto sarebbe impossibile dovendo fare quarantacinque minuti di strada in auto come facevo quando vivevamo a Milano per raggiungere Buccinasco. Anche se l’ambiente è competitivo in maniera malsana e i ragazzi di qui sono viziati e portati al tennis in maniera ossessiva, credo che la Florida sia un posto unico per poter provare questa strada, i mezzi ci sono tutti. Certo è un sacrificio anche per i ragazzi, ma vedo che anche mia figlia Rachele, a 12 anni, si alza ogni mattina alle sei senza fiatare e va in campo a giocare prima di iniziare la scuola. Lo fa anche perché stimolata dal fratello, ma le piace, è diventata una routine normalissima pure per lei. Poi è molto matura mentalmente, quasi più del fratello maggiore”. I ragazzi Rimondini, finito l’Eddie Herr, andranno a giocare anche l’Orange Bowl. Rachele che dal tabellone under-12 dell’Eddie Herr è uscita nell’ultimo turno di qualificazioni arriverà sicuramente più fresca del fratello che ancora non sa se dovrà giocare le qualificazioni e se dovrà farlo troppo presto, senza contare il passaggio mai comodo tra cemento e terra, figuriamoci se è costretto in uno o due giorni.
Abbiamo chiesto un’opinione alla signora Rimondini anche in merito all’Orange Bowl e ci ha risposto con lo straordinario pragmatismo che solo una madre sa esprimere così naturalmente: “Si gioca più vicino a casa nostra, sicuramente sarà più comodo”.
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