di Alessandro Mastroluca
Giocatore, maestro, padre. Tre modi di vivere la stessa inesauribile passione per il tennis. Stefano Galvani, numero 99 ATP come best ranking, da piccolo ha iniziato col calcio. Ma il papà, che è stato al massimo C2 ma è sempre stato un grande agonista, lo manda al centro estivo a Tonezza per 15 giorni. E da quel giorno non ha più smesso di giocare. “Il tennis mi dà emozioni che non trovo in nessun altro sport” racconta, “se potessi tornerei in campo anche adesso ma il fisico non mi regge”.
Adesso si limita a seguire un gruppo di ragazzi fra i 13 e i 19 anni al circolo tennis di Rimini. “Sono un po’ un mix di tutti gli allenatori che ho avuto. Certo, devo molto a Giampaolo Coppo, lui è stato il mio primo coach, con lui sono diventato professionista. È lui che mi ha insegnato a gestire le emozioni, le cose da fare e quelle da evitare in campo. E soprattutto come giocare d’anticipo, una cosa che provo a trasferire ai ragazzi. Perché oggi un tennista deve saper giocare con i piedi dentro il campo, anche i grandi spagnoli, prendi Nadal, prendi Ferrer, hanno cambiato il loro stile di gioco, hanno dimostrato che la capacità di giocare d’anticipo oggi è imprescindibile”.
Ma com’è il Galvani-maestro? “Cerco di aiutare a far sì che i ragazzi imparino a giocare un certo colpo, o a fare un certo esercizio, da soli. Li guido, certo, mostro come vanno fatti determinati esercizi ma non sono uno di quelli che fa vedere ai ragazzi come giocano il dritto o il rovescio, come a dire ‘guardate io alla mia età so ancora tirarli bene’. È un approccio che deriva dalla mia esperienza, il mio primo maestro faceva un po’ così, io mi impegnavo al massimo, ma quando non riuscivo a tirare che so il rovescio, non capivo perché lui si metteva al posto mio e mi faceva vedere che invece sapeva giocarlo. Almeno questo errore cerco di evitarlo”.
Di vite, e di carriere, Galvani ne ha vissuta più d’una.La sua carriera da pro si ferma subito, dopo i primi sei mesi, per un grave infortunio alla caviglia. Poi nel 2000 deve fare i conti con il servizio militare, che quell’anno per disposizione dei vertici ha soppresso i “privilegi” per gli atleti: gli viene negato anche il permesso per andare a giocare le qualificazioni a Wimbledon. Nel settembre 2003, poi, come ha raccontato al nostro Gianfilippo Maiga, “in un incidente di macchina il vetro laterale andò in frantumi e una scheggia mi tagliò la cornea dell’occhio sinistro. Un primo tentativo di semplice “rammendo” si era rivelato fallimentare”. Inizia così un’odissea che dura più di un anno. “Nessuno si prendeva la responsabilità di operarmi l’occhio e se ho potuto continuare la mia carriera lo devo a un solo uomo: il medico di Forlì Massimo Busin, che mi ha trapiantato una nuova cornea. Devo tutto a lui e a Gandini, un ottico che mi ha trovato una lente a contatto particolare, con la quale ho potuto giocare proteggendo l’occhio e vedendo bene”.
Nel pantheon dei suoi ricordi tennistici non c’è solo l’aver portato Youzhny al quinto set sul campo 2 a Wimbledon, in una partita girata su pochi punti che avrebbe anche potuto vincere. “Ricordo molto bene il torneo di Barcellona nel 2002, il primo in cui ho giocato bene bene. Avevo già affrontato top-15, top-20, erano state in molti casi partite lottate ma avevo sempre perso. In quella settimana invece ho battuto Nadal al primo turno di qualificazioni, e nel main draw Ljubicic e Kafelnikov, che era numero 4 del mondo allora. Ho perso poi da Albert Costa che avrebbe di lì a poco vinto il Roland Garros. E quando a Parigi gli chiesero: ‘Qual è l’italiano che gioca meglio?’, lui rispose:’Galvani’”. E non è un complimento di quelli che arrivano tutti i giorni. “Poi c’è la convocazione in Coppa Davis o il secondo turno a Roma nel 2006”, quando batte ancora Ljubicic prima di fermarsi contro Greg Rusedski.
Ma il fuoco della passione in casa Galvani non è ancora spento, anzi. Ora Stefano guarda la primogenita che ha 8 anni e che, ci dice, “ha gli stessi difetti miei”. Anche per lei il tennis è diventato un amore totale, “la vedi che prova il dritto e il rovescio davanti allo specchio”. Stefano l’ha affidata al suo ultimo coach, Patricio Remondegui. Chi l’ha vista giocare sottolinea che la continuità genetica si vede, si sente, si tocca. “L’hanno vista persone che conosco e mi hanno detto: è l’unica bambina che a quell’età gioca già d’anticipo, si muove come il padre”. Padre che, pur con qualche difficoltà, prova a limitarsi al ruolo di papà e di fotografo. “Cerco di non essere l’allenatore di mia figlia, anche se non è facile perché qualche consiglio ovviamente me lo chiede. Quando la guardo giocare, se vedo certe cose che si potrebbero migliorare, ne parlo con l’allenatore. Cerco di rimanere distaccato, altrimenti” ammette, “soffrirei troppo”. Nessuna pressione, però. Anzi. “Non voglio che mia figlia possa sentirsi in dovere di dimostrare di essere forte come il padre” afferma con forza. “Ora ha vinto un torneino, ha vinto la coppa ed è stata molto contenta. Ma i risultati non contano niente a quest’età soprattutto. Da padre, mi fa piacere che si impegni e che si comporti bene”. Che sarà, sarà.
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