di Luca Brancher
«La mia sensazione viscerale è che chiunque possiede dei poteri psichici… e si tratta di una parte di noi così interiorizzata che raramente ce ne accorgiamo. È un talento che potrebbe essere in larga misura represso e anche questo ci impedisce di notarlo.»
A chi avesse letto The Stand di Stephen King – noto in Italia col nome di L’ombra dello Scorpione – il pensiero sopra formulato non dovrebbe risultare nuovo, per quanto, all’interno della vasta opera di uno dei maestri del genere dell’orrore, ricopra un ruolo piuttosto marginale. Nello specifico, nel bel mezzo del racconto, uno dei personaggi chiave dell’intero romanzo introduce i – a suo dire – significativi risultati di uno studio sociologico condotto da tal James D.L. Staunton, dai quali si evincerebbe come vi sia una rilevanza statistica da non trascurare tra il numero di cancellazioni e defezioni registrate su treni od aerei che hanno avuto incidenti rispetto a quelli arrivati normalmente a destinazione: sarebbero molto più alte sui primi. Una differenza che addirittura si attesterebbe attorno al 15%, stando ai dati analizzati dallo studioso in questione, ma che tuttavia fanno storcere il naso. E lo fanno a maggior ragione se le motivazioni sono quelle pocanzi addotte. Non fosse che, come era facile prevedibile, James D.L. Staunton non pare aver mai generato un pensiero a riguardo. Anzi, è mai esistito questo James D.L. Staunton? Probabilmente sì, ma non è stato un sociologo.
(Marc Rosset nel suo attuale ruolo di commentatore televisivo)
Se ci fosse una figura analoga, ai giorni nostri, che avesse effettivamente tentato di trarre qualche risultato da uno studio di questo tipo, uno Staunton del XXI secolo per intenderci, molto probabilmente avrebbe concentrato la sua attenzione, tra gli altri eventi, sul drammatico volo Swissair 111 del 2 Settembre 1998, dal quale, però, nessuna stranezza sul numero di defezioni pre-volo sarebbe stata segnalata. Tra i 215 passeggerei regolarmente a bordo, per esempio, c’era anche Pierre Babolat, magnate del colosso di attrezzatura tennistica, che ancora non aveva esteso il mercato della racchetta sul suolo statunitense. Sarebbe avvenuto due anni più tardi, peccato che non avrebbe mai avuto modo di assistere a tale evento, dal momento che quel volo per Ginevra, invece del tempo previsto, sarebbe durato poco più di un’ora, ovvero fino a quando il velivolo non si schiantò al largo di Peggy’s Cove. Nessun talento represso e nessun potere psichico, bensì semplice zelo, portò Marc Rosset a posticipare la sua prenotazione, che inizialmente era prevista proprio su quel volo maledetto. Dopo essere stato amaramente eliminato al primo turno dello U.S. Open, per opera del giovane Dominik Hrbaty, e nonostante non fosse in procinto di prendere parte al doppio, Marc, assieme al suo coach Pierre Simsolo, decise improvvisamente di posticipare la prenotazione di 24 ore, perché desideroso di trascorrere un giorno in più a New York. Una scelta che, apparentemente, non avrebbe mutato di molto il corso della sua vita, ma che in verità gliel’ha lasciata immacolata, la vita.
Oggi Marc Rosset, nato 44 anni fa a Ginevra, compie gli anni ed è un apprezzato commentatore della tv svizzera. Non avesse cambiato idea, quel giorno, non potrebbe fregiarsi di essere uno dei soli quattro giocatori – oltre a Sampras, Chang e Ivanisevic – ad essere rimasto classificato all’interno della top-100 per tutto il corso degli anni ’90. Non avesse mutato la sua decisione, quel giorno, non avrebbe potuto cogliere il quarto di finale agli Australian Open del 1999, suo secondo miglior risultato Slam dopo la semifinale parigina del 1996 – situazione curiosa, dal momento che Pippo era sicuramente un tennista molto più adatto alle superfici rapide, e non solo per la sua altezza, che superava di poco i 2 metri. Non fosse tornato sui suoi passi, quel giorno, non si sarebbe nemmeno potuto togliere lo sfizio di battere Roger Federer nella prima finale in assoluto che il futuro numero 1 elvetico ha colto sul circuito. A Marsiglia, nell’anno 2000, Rosset, al termine di un incontro sostanzialmente equilibrato, conquistava infatti per la terza volta il titolo provenzale: narrando il frangente della stretta di mano è inutile ricorrere al classico “passaggio di consegne”, sia perché a vincere fu il più anziano, sia perché il paragone tra i due sarebbe piuttosto impietoso – ma comparare Roger a quasi tutti lo sarebbe, invero… – probabilmente, però, il ragazzo di Basilea, dal canto suo, avrebbe voluto che, attraverso quel contatto, Marc gli trasferisse quella “magia” che gli aveva permesso, otto anni prima, di conquistare quell’unico titolo che a Federer, miracoli brasiliani ancora possibili a parte, con ogni probabilità mancherà dalla sua omnicomprensiva bacheca. L’oro olimpico in singolare.
Senza ombra di dubbio, infatti, il successo che gli ha regalato gloria e fama è stato quello di Barcelona 1992, dove con una performance pazzesca, che lo portò ad eliminare nell’ordine le teste di serie numero 9, appartenuta a Wayne Ferreira, 1, Jim Courier, 12, Emilio Sanchez, 4, Goran Ivanisevic, e 17, Jordi Arrese, si mise al collo la medaglia d’oro; nella commovente finale durata oltre 5 ore, che sul tennista iberico lasciò l’indelebile marchio definito dal soprannome Medalla, Marc fece leva su quelle caratteristiche che gli permisero di assurgere come giocatore poliedrico, alternando giocate di mera potenza – sulla forza del suo servizio ne sa qualcosa il buon Goran Ivanisevic, che durante un torneo di doppio venne colpito da una seconda di servizio – a schemi di pura attesa, non avendo nulla da invidiare, nonostante la mole e i soli 21 anni, al più esperto rivale.
Quell’alloro rappresenta un tratto distintivo che nel mondo del tennis non è equiparabile alla vittoria di uno Slam, ma nel suo piccolo, data la rarità degli eventi olimpici, ripartiti ogni quadriennio, costituisce una fonte di soddisfazione infinita. Anche perché non sei semplicemente Marc Rosset, sei Marc Rosset, Svizzera. E capita solo in quest’occasione, oltre alla Davis.
La competizione a squadre funge da capitolo in chiaroscuro della sua vita professionale, dal momento che, oltre alla finale sempre nell’anno 1992 – stagione d’oro, se si ricorda anche il titolo di doppio al Roland Garros, assieme a Jakob Hlasek – subì, al termine dell’anno 2005, quando ormai da due stagioni ricopriva il ruolo di allenatore, inizialmente giocando pure, la sommossa interna che portò i giocatori a chiedere la sua deposizione, in favore dell’attuale selezionatore, Severin Luthi. Non pare che Rosset serbi rancore, dal momento che si batte strenuamente nella difesa degli attuali alfieri della nazionale elvetica, che quest’anno potrebbe vendicare la sua sconfitta in finale contro gli Stati Uniti di ventidue anni fa. Quest’estate, per esempio, al seguito del torneo di Wimbledon per la televisione elvetica, Pippo – così chiamato dal momento che il suo fisico longilineo rimandava ai tratti dell’amico di Topolino – non ha perso occasione di difendere Roger, a suo dire troppo spesso attaccato per prestazioni sottotono – peraltro quest’anno ridotte veramente al minimo – soprattutto da chi lo invitava al ritiro. “Ma vi pare il caso che uno come Federer possa ascoltare queste voci? Saprà lui quando smettere..”
A febbraio del 2005, dopo un incontro perso nel challenger di Lubecca, il ginevrino ha optato per porre fine alla sua di carriera. Longeva, non c’è che dire, come sottolineano i quindici titoli sparsi lungo tre decadi differenti, il primo a Ginevra, sua città natale, nel 1989, l’ultimo a Londra, nel 2000, seconda occasione in cui sconfiggeva Federer – ma nei quarti – contro il quale il computo degli scontri diretti si sarebbe riappianato negli anni a seguire; in mezzo tanti allori indoor, senza dimenticare l’erba di Halle, o la terra battuta di Nizza, simbolo di come la sua competitività si estendesse lungo tutti i mesi dell’anno. Quello che è mancato, in tutta onestà, era una maggiore continuità a livello di Slam, dove in effetti troppe volte, anche in momenti di forma favorevoli, ha pagato dazio già al turno d’esordio, non garantendosi mai una classifica migliore di quella registrata l’11 settembre – altra triste data, in fatto di voli – del 1995: numero 9. Unica settimana in cui Marc ha saputo mantenere una posizione formata da una sola cifra, in una carriera in cui da top ten ha trascorso poco meno di 50 giorni. Troppo poco, oppure semplicemente quanto era nel suo potenziale, per quanto da una medaglia d’oro olimpica a 21 anni fosse forse lecito attendersi qualcosa di più.
Nel segno della tradizione elvetica, Marc Rosset risulta essere un personaggio alquanto razionale, che ha saputo sprigionare tutta la sua potenza a lungo sul circuito, ma che forse non ha sfondato come tale potenza avrebbe lasciato presagire. A quel tempo era anche il giocatore più alto del circuito, prima che l’armata dei Karlovic gli togliesse questo record, ma non per questo ha fatto passare in secondo piano il ricordo di un tennista, non principale ma comunque noto, che rischiava di abbandonarci salendo su quel maledetto aereo 16 anni fa. All’epoca Marc non aveva ancora compiuto 28 anni, ed un macabro gioco del destino gli avrebbe permesso di entrare nella ristretta cerchia del Club 27, perlopiù riservato a cantanti, che dopo aver superato quell’anno sono deceduti. Una ricorrenza e peculiarità tutt’altro che invidiabile, che differentemente da quelle legate a ranking e vittorie nei tornei prima esposti, non si sono trasformati in rilevanze numeriche determinanti per la sua vita. Per trasformarlo in mito tennistico da ricordare non ce n’era assolutamente bisogno
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