di Federico Mariani
Le braccia al cielo, il sorriso di sempre e lo sguardo di chi si diverte ancora da matti con una racchetta. Così Roger Federer ha salutato l’ultimo trofeo incastonato in una bacheca irreale, l’ottantunesimo della serie, uno dei pochissimi sul quale non aveva ancora posato le mani.
Il modo di festeggiare è sempre lo stesso, non una smorfia, non uno sguardo spiritato, traspare solo gioia pura, un fuoco dentro che ancora arde, ed un appetito mai sazio non di banale gloria, ma di semplice tennis. Se emozionalmente è sempre il Roger di sempre, dentro il rettangolo di gioco è rinnovato. A 33 anni, di cui 16 passati sul circuito, lo svizzero non smette di ritoccare quello che può sembrare un meccanismo già di per sé perfetto. Ci sono sempre accorgimenti nuovi, tattiche inedite, nuovi obiettivi all’orizzonte, spinti dal coraggio e dalla voglia di mettersi continuamente in discussione.
Federer negli anni ha saputo plasmare il suo infinito talento al servizio del gioco traendone il massimo, ha saputo conservare qualcosa dai campioni del passato per poi sfruttare anche i benefici del tennis moderno. Ha saputo coniugare la bellezza di ieri con la violenza di oggi in modo talmente naturale da sfiorare la perfezione. Nel mondo dello sport si dice, a ragione, che il vero campione è colui che riesce con la sua carriera a cambiare il gioco di cui è stato interprete. Federer non solo ha lasciato un segno indelebile nella storia del tennis facendo registrare picchi di gioco inesplorati e (probabilmente) inesplorabili in futuro, ma ha fatto di più: lo svizzero ha cambiato la dimensione del tennis trasformandolo, da uno sport di nicchia quale era, in fenomeno quasi popolare allargandone orizzonti e spettatori e dando il là, di fatto, ad un nuovo mercato. Nonostante la sua grandezza e l’assoluta assenza di cose da dimostrare, Federer è ancora lì in mezzo alla bagarre a lottare con ragazzotti di 5-6-10 anni in meno che mette regolarmente in riga. E’ lì perché, dopo un 2013 da incubo, vuole ancora divertirsi e vincere e, cambiando, sta riuscendo a fare entrambe le cose.
I numeri di Federer in questo 2014, se contestualizzati, sono da fantascienza: ieri è arrivato il secondo Masters 1000 dopo Cincinnati ed il quarto trofeo dell’anno, cui vanno aggiunte altre cinque finali (Brisbane, Indian Wells, Montecarlo, Wimbledon e Toronto). Oggi c’è la seconda piazza riconquistata grazie a 61 match vinti che ne fanno il più vincente dell’anno, c’è una storica finale di Davis da giocare da favorito insieme alla Svizzera, c’è la vetta del ranking non così lontana da essere considerata utopica, ci sono ancora Basilea, Bercy e soprattutto le Finals di Londra in cui sarà sicuro protagonista. Cose impensabili se si considera la situazione di appena dodici mesi fa quando il solo titolo in cascina era il 250 di Halle e la qualificazione alle Finals era arrivata per un soffio.
Poi c’è stata la rinascita, dettata dalla volontà di Roger di non dire basta. Per tornare in alto lo svizzero doveva cambiare e così è stato. La prima scelta ha riguardato l’attrezzo che lo aveva sin lì accompagnato per più o meno tutta la carriera, un attrezzo divenuto impossibile ora come ora. Dopo aver testato più e più prototipi, Federer ha scelto un piatto più grande di sette pollici quadrati decisamente più maneggevole ed “amico” dell’età e dei recuperi. Una scelta tanto sofferta, quanto umile ed intelligente e che sicuramente sta dando i frutti sperati.
Il cambiamento più importante, invece, è stato quello legato alla figura di Stefan Edberg in qualità di coach. Lo svizzero non ha mai fatto segreto di idolatrare Edberg da ragazzo e volerlo sulla sua panchina si è dimostrata essere, una volta di più, la scelta perfetta. Quasi tutti gli allenatori passati di Federer lo hanno esortato ad essere più offensivo, a prendere più spesso la rete, specie contro i giovanotti terribili di oggi e Federer, pur dotato di un fantastico gioco di volo, si è sempre mostrato restìo ad adottare questo atteggiamento. Se a dirlo, invece, è Edberg la musica cambia e così poi è stato. Le prestazioni di ieri con Simon e ieri l’altro con Djokovic ne danno ulteriore conferma: una tattica d’attacco quasi integralista che ha portato Federer 70 volte a rete in quattro set da cui ha raccolto il 65% dei punti, un rendimento impressionante se si considera la qualità di Djokovic e Simon nel passare. Queste scelte trasudano coraggio ed intelligenza, ma anche umiltà. Grazie anche a queste qualità Federer è senza dubbio alcuno il campione più amato dalla folle, che lo osannano in ogni campo del globo e che lo hanno fatto diventare un fenomeno universale.
Ogni volta l’uomo di Basilea fa vedere qualcosa di nuovo, una piccola sfaccettatura del suo gioco che cambia e che fa capire quanto duro lavori sul campo ancora oggi. Federer non è un campione finito, ma continua ad evolversi e forse è proprio questa la sua vittoria più grande: l’essere il più moderno tra i campioni, anche oggi, anche a 33 anni.
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