di Alessandro Mastroluca
Se l’è portato il vento, se l’è mangiato il mare. Ha preferito la morte al disonore. Sentiva di aver offeso il suo Paese perdendo il decisivo quinto singolare in semifinale di Davis contro l’Australia nel 1933. E di fronte al dilemma escruciante tra offendere il nome della famiglia e rompere la promessa di matrimonio ha preferitoo gettarsi dal ponte di una nave nelle acque dello stretto di Malacca.
È una morte da samurai, quella di Jiro Sato, campione tanto imperscrutabile in campo quanto mentalmente fragile fuori, la prima vera leggenda del tennis giapponese, e l’ultimo nipponico a giocarsi una semifinale Slam prima di Nishikori.
Fino agli anni ’20, in Giappone i bambini imparano a giocare a tennis solo quelle che gli americani chiamano “spaldeen”, palle di gomma piuma che vanno colpite con moltissimo spin e grande potenza. È così che i pionieri di questo sport nel Sol Levante, Shimizu e Takeichi Harada, sviluppano uno stile basato su una presa Western estrema e colpi super-liftati. Sato invece appartiene alla nuova scuola, la sua tecnica nasce dagli stessi metodi di allenamento usati all’estero.
Arriva in Europa per la prima volta nel 1931, e raggiunge la semifinale al Roland Garros e i quarti a Wimbledon, battuto sempre da Jean Borotra, e si fa un nome vincendo 13 tornei minori in Gran Bretagna. L’anno successivo è l’unico ad arrivare ai quarti ai Championships senza perdere un set. Cede il primo contro Sidney Wood, il campione in carica che l’anno prima si era aggiudicato “the Wimbledon final that never was”, come recita il titolo del suo libro, l’unica finale non disputata nella storia del torneo, per il forfait di Frank Shields. Sato, comunque, vince in quattro set prima di arrendersi in semifinale a Bunny Austin. Due mesi dopo conquista il titolo agli Us Pacific Southwest Championships in finale su Ellsworth Vines, “il servizio più veloce del West”, capace già allora di battere a quasi 210 kmh.
Così, mentre l’Imperatore trasforma il Giappone in una potenza militare, Sato trasforma la nazionale in una potenza in Coppa Davis: e non si potrà mai concedere il lusso di dimenticare l’enorme responsabilità di rappresentare e difendere l’onore dell’intera nazione nel mondo.
Sato non si interessa di politica, del crescente nazionalismo dopo il tentativo di colpo di stato da parte di alcuni esponenti della Marina Imperiale del 15 maggio 1932. Ma ama la sua patria con una devozione profonda e nel 1933 lascia gli studi in economia per iniziare la sua terza stagione nel mondo del tennis. Batte Perry al Roland Garros e torna in semifinale a Wimbledon: il giornalista del Telegraph, Wallis Meyers, che all’epoca redigeva le classifiche, lo inserisce al numero 3 del ranking mondiale.
Ma nella semifinale della zona europea di quella che allora si chiamava International Lawn Tennis Challenge, e che oggi conosciamo come Coppa Davis, a Parigi qualcosa si rompe. Sato sbaglia troppi smash nel quinto set del doppio, rimandato all’ultima giornata per la pioggia, e perde 97 16 46 64 75 l’ultimo singolare contro Crawford. L’Australia rimonta da 0-2 e si qualifica alla finale contro la Gran Bretagna a Wimbledon. In patria, Sato passa in un attimo da eroe a perdente. Medita di lasciare il tennis, di completare gli studi in economia alla Waseda University. La notte di San Silvestro del 1933 propone alla sua fidanzata, e compagna di doppio, Sanaye Okada, di sposarlo. Il matrimonio viene fissato per la primavera del 1935. Ma c’è un ostacolo, e non da poco. Sanaye è figlia unica, perciò Sato dovrebbe prendere il suo cognome per preservarlo. Ma gran parte della famiglia di Sato non è d’accordo.
Il campione vorrebbe prendersi un anno sabbatico dal tennis, ma la federazione respinge la richiesta. La prima responsabilità di un tennista, si legge nella lettera di risposta, è prendere in mano la racchetta e difendere così l’onore della nazione. A malincuore, anche la sua futura sposa lo convince che il tennis dovrebbe essere ancora la sua priorità.
Così Sato parte sulla N.Y.K. Hakone Maru in direzione Gran Bretagna. C’è da affrontare ancora l’Australia in Coppa Davis e da preparare Wimbledon. Ma Sato ha altri pensieri per la testa, deve pensare se è peggio farsi disonorare per aver tradito il cognome della famiglia o per aver rotto la promessa di matrimonio. Alla partenza ha forti dolori allo stomaco: per il medico di bordo si tratta di un forte attacco di nevrastenia. Ancora una volta, Sato chiede di essere rimandato a casa, ancora una volta gli viene risposto che non è possibile.
È triste, solitario, Sato, in quei primi giorni di navigazione. Alle 23.30 del 5 aprile Jiro Yamagishi, chiamato come riserva, si prepara per andare a dormire. La nave ha lasciato da poche ore Singapore diretta al porto di Penang, in Malesia, 500 miglia a nord, e sta attraversando lo stretto di Malacca. C’è qualcosa di strano, però. La cabina di Sato è aperta ed è vuota. Sato non c’è Dentro ci sono solo due lettere, una di scuse al capitano della nave, l’altra ai suoi compagni di nazionale: “Anche se non sarò fisicamente con voi, sarò accanto a voi in spirito” c’è scritto. Non ci sono dubbi: Sato si è buttato in mare. Il suo corpo non verrà mai ritrovato.
“Credo che Jiro si sia suicidato solo per il senso di responsabilità, dopo che aveva ceduto alle pressioni della federazione, anche quando voleva tornare da Singapore. Per tutta la vita rimpiangerò quell’ordine della federazione giapponese che l’ha portato alla morte. Jiro era un uomo d’onore e ha giocato sempre per l’onore del Giappone”. E ha preferito perdere la vita che perdere l’onore.
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