di Sergio Pastena
Il mio approccio al mondo Gulbis potrebbe essere sintetizzato con una sola parola: razzismo.
Sentii parlare per la prima volta del lettone qualche anno fa in occasione di degli Us Open del 2007, quando mandò a casa Robredo, poco dopo che a Wimbledon aveva strappato un set a Baghdatis. All’epoca leggere delle sue prodezze sui giornali senza averlo visto giocare alimentò il cosiddetto “effetto Weah”. Niente di relativo al colore della pelle, per carità, ma quando sentii per la prima volta parlare del buon George la mia reazione ignorante e spontanea fu “Seh, vabbè, la Liberia”. Erano gli anni della prima grande ondata africana, con lo storico Camerun del 1990, ma fino a quel momento la mia idea di “Africa calcistica” si fermava al Maghreb, visto che quando ai Mondiali era andato lo Zaire aveva preso 14 papagne in 3 partite.
Allo stesso modo, all’epoca, per me le repubbliche ex russe non contavano, quasi non esistevano: “Chi? Un lettone? Ma figuriamoci…”. Ignoranza doppia, se vogliamo, visto che ai tempi dell’URSS uno dei principali tennisti sovietici era il georgiano Metreveli. Il tempo galantuomo fece giustizia, mentre Gulbis per poco non ci giustiziava in Davis nel 2008, e così iniziai ad interessarmi a lui. Il classico personaggio che non sai se amare o odiare: un talento ineccepibile capitato in mano a un figlio di multimilionario che poteva avere tutto dalla vita e una tendenza allo spreco e all’autolesionismo che più volte mi ha fatto, da buon agnostico, rimproverare Dio, il destino, il caso o quello che è per cotanta ingiustizia. A completare il quadro alcune esternazioni discutibili, tra le quali è passata inosservata un “tennista orribile” rifilato a Santoro che avrebbe giustificato la devitalizzazione dei molari a racchettate.
Mai una volta che sapessi cosa aspettarti da lui. Capace di score perfetti nelle finali (sei su sei quelle vinte) e di mandare ai matti Nadal, che nei confronti diretti ha un 7 su 7 bugiardissimo e l’anno scorso a Roma per un set manco l’ha vista. Ma capace anche di tragicomiche sconfitte al primo turno contro i vari Przysiezny, Hajek, Haider-Maurer, Bubka, Marchenko e tutta la bella fauna che passa il tempo a bordeggiare tra Atp e Challenger. Parole odiose e lampi di classe, palle corte sopraffine e smash decisivi in rete, per arrivare ai 24 anni tra la convinzione generale che “Sarà sempre così”. Troppo ricco, poco motivato, un Safin minore destinato a vivere di effimeri momenti di gloria.
E poi? Poi tutto cambia, a partire dal nuovo coach Gunther Bresnik che su di lui fa un lavoro eccelso. Sansone al contrario: il capello si accorcia e le forze, soprattutto quelle mentali, si moltiplicano. Poi i capelli tornano ma la forza non va via. Essere sorpresi? Personalmente no, si vedeva da qualche tempo che il piglio era differente e i frutti stavano arrivando. Non pensavo, però, che il lettone battesse Federer. Hai voglia a menarla col declino del patriarca, ma realisticamente va detto che per Federer la parola “declino” si traduce come quarta posizione nel ranking mondiale, una semifinale Slam, due finali Atp 1000 e una vittoria Atp 500 solo nel 2014. Vero, Ernests aveva già battuto King Roger, ma tre su cinque in rimonta è un’altra cosa. Lo scoglio naturale dello svizzero, casomai, era Berdych, quello stesso Berdych che Gulbis ha letteralmente annichilito regalandosi la prima semifinale Slam della carriera. E se la vittoria con Federer mi ha sorpreso, quella con Berdych non ha fatto lo stesso effetto.
Al termine del Roland Garros sarà top ten salvo che Monfils non si prenda il torneo, evento che nella classifica delle probabilità viene poco dopo di “Finale non disputata causa caduta meteoriti”. E se Ernests dovesse prendere coscienza a pieno di quello che può fare, il divertimento potrebbe non finire qui.
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