di Luca Brancher
Una sera sono rientrato a casa tardi. Ero stanco ed avevo giocato male a tennis. Molto male. Ma non ero triste, era il 25 Aprile, Pjanic aveva appena segnato un gol che dagli amanti del calcio è considerato un bijoux e all’orizzonte si prospettavano due giornate di totale nullafacenza. Non sapevo, però, come chiudere la giornata, fino a quando, girando per vari streaming, mi sono imbattuto in una partita dal fascino tutto particolare. Da una parte l’ucraino trapiantato negli Stati Uniti Denis Kudla, dall’altra il normanno Axel Michon: a creare l’atmosfera un campo in terra battuta di Santos, località fuori-rotta per entrambi. Kudla, alla ricerca di fiducia e partite sulla superficie meno conosciuta, Michon, errante alla conquista di punti in mete poco frequentate.
Ero curioso di vedere il transalpino. Un giudizio, su di lui, non ero riuscito a plasmarlo, consapevole che avesse un gioco piuttosto desueto, che lo aveva relegato al ruolo di ottimo giocatore da future, incapace di comprendere se tale destino avesse la possibilità di mutare. Quello che mi sarei apprestato a vedere avrebbe avvalorato lo strano percorso avuto nel corso delle stagioni precedenti, in cui aveva ottenuto diversi titoli a livello ITF (13), senza dare mai l’impressione di poter spiccare il salto definitivo. Michon è dotato di un tennis gradevole, come la famiglia mancina impone, ricco di variazioni, accelerazioni, probabilmente troppo difficile, ed è dotato di un fisico assolutamente non in linea con quanto va per la maggiore nello sport attuale. Per cui la mole di gioco che a sprazzi produce rischia da un momento all’altro di venire disintegrata davanti a giocatori meno dotati di lui, ma con più peso sui colpi e più presenza sul campo.
Sta di fatto che grazie a qualche risultato challenger positivo nel corso della stagione in corso – la prima in cui Axel, ormai sulla strada per i 24 anni (che compirà a dicembre), ha deciso di puntare completamente su questo genere di tornei – è risultato destinatario di una wild card per il tabellone principale del Roland Garros. Un altro mondo, per lui, che da Granville, Normandia che si affaccia sulla Manica, non ha dovuto affrontare un viaggio così probante, quantomeno non quanto quello sudamericano di metà aprile che gli ha aperto le porte del grande tennis. Da wild-card, certo, avrebbe potuto incappare in un sorteggio come quello occorso a Robby Ginepri, ma la clemenza della dea bendata è stata a tal punto smisurata da consegnarli un connazionale di Ginepri, ben poco a suo agio sulla terra battuta, Bradley Klahn.
“Ora le luci dei riflettori si sono accese su di me, di sicuro non mi lamento, anche perché non è che mi siano arrivate 150 richieste di interviste” ha esordito lui non appena ha messo piede a Bois de Boulogne, tra gli sguardi divertiti di chi si proponeva qualche domanda, ricordando quanto era accaduto qualche mese addietro “Alcuni giornalisti volevano fare un articolo su di me, così decisero di seguirmi sul tour. Quando ho capito che in realtà il pezzo voleva vertere sulle difficoltà dei giocatori costretti a vagare per il circuito ITF, mi sono irrigidito: le difficoltà ci sono perché è una situazione dura per tutti. Io viaggio, io gioco a tennis, questo mi piace, non sono un milionario, ma non ho alcuna intenzione di piangermi addosso o di raccontare come io sbarchi il lunario.”
Tutta questa attenzione improvvisa da un lato lo lusinga, dall’altro lo spaventa. Si definisce un po’ ingenuo, si permette l’attività anche grazie ai soldi che gli passa il comune di Granville e la casa editrice Amphora e sa bene cosa vuol dire essere al Roland Garros per un tennista come lui. “Mi piace l’atmosfera che c’è qui, anche i grandi campioni sono molto più vicini di quanto non sembrino, di sicuro non mi metterò ad inseguire Nadal, è giusto mantenere un minimo di distanza, ma sono ragazzi molto tranquilli. Puoi chiedere a qualsiasi tennista francese, e ti dirà che tra noi compatrioti c’è il giusto feeling.” A prescindere dall’atmosfera, dall’attenzione dei media e dall’ingente assegno che staccherà al termine della sua avventura, qualsiasi sia il piazzamento, c’è pur sempre un match da giocare. Una sorta di Davide contro Golia in salsa francese. Bradley Klahn lo aspetta.
Klahn è il giocatore che non attendevamo, a questi livelli. Salito alle spalle degli “eroi” della classe ‘92 (Harrison, Sock e Kudla), lui che di anni ne ha due in più, ha insospettabilmente messo la freccia, grazie alla maggiore solidità mostrata in maniera particolare a livello challenger, ma sulla terra battuta si trova come mi posso trovare io davanti ad un piatto di spaghetti con le cozze cinque minuti dopo il risveglio. Per altro quest’anno non ci aveva ancora messo piede, sulla terra, e vi mancava dallo scorso giugno, quando si fece sorprendere in due set da Pere Riba ad Arad. Il pronostico era tutto con Axel.
C’erano però vari fattori da valutare: l’emozione dell’esordio in un torneo dello Slam, per Michon, e il solito gap fisico. Se avessimo dovuto scegliere un tennista per il gioco, questi era il francese, ma la solidità e le armi sull’uno-due dello statunitense non erano da screditare; si sviluppava quindi una partita dal copione noto, ma dal finale incerto, poiché tirato. Dopo un dominio di Michon per un set e mezzo, avanti 6-1 5-3 30-15 Axel veniva risucchiato nel mare delle sue incertezze, non capitalizzando due set point sul 6-5 e finendo per essere superato al tie break; un copione simile avremmo vissuto nel terzo set, dove nuovamente un vantaggio per 5-3 30-15 non si concretizzava e la frazione si chiudeva, sempre in favore di Klahn, ma sul 7-5. Probabilmente provato dalla fatica, lo statunitense spariva dal campo per i successivi 10 giochi , in cui Michon si metteva a disegnare nuovamente traiettorie che lo traghettavano fino al 3-0, e poi al 4-2, del quinto. Era troppo presto per dichiarare conclusa la contesa, dato che Bradley rientrava sul 4-4, prima di cedere i due giochi successivi-
All’interno di una zona di tabellone piuttosto sgombra e falcidiata dagli infortuni, Axel se la dovrà vedere, al prossimo turno, con il sudafricano Kevin Anderson, contro il quale non pare attualmente avere armi da opporre. A meno che il suo tennis, onestamente di difficile giocabilità, non raggiunga vette ancora inesplorate: rispetto ad inizio anno, nel corso delle settimane passate, ha vinto partite contro giocatori che sembravano al di sopra delle sue potenzialità. Come in quella partita contro Kudla, in cui, dopo aver vinto a sorpresa la prima frazione al tie break, sembrava destinato a collassare quando, nel terzo parziale, doveva fronteggiare una palla per il doppio break in favore del nativo ucraino. E da quel momento si era messo a sciorinare un tennis indigesto per il suo avversario. Ed esaltante per i suoi tifosi.
Tre set su cinque è un altro sport, un torneo dello Slam è un altro sport, diranno i più. Per scalare la vetta, però, da qualche parte bisognerà pur cominciare. Tante volte i tentativi falliscono, anche perché si rivelano fallaci le basi da cui si parte – come quella volta in cui volendo recuperare un brano dei REM convinto fosse loro, a tal punto bramoso, decisi di scartabellare tutta la loro discografia (e non sono i Vampire Weekend) salvo capire che non era loro molto dopo – e non è assolutamente il caso di Michon, nuovo tennista alla corte di Francia.
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