di Luca Brancher e Alessandro Nizegorodcew
Fatemi capire. Fatemi capire perché sono sgomento. La settimana scorsa il Kazakhstan ha rischiato un colpaccio che avrebbe ridefinito le gerarchie di una Coppa Davis 2014 in cui, dopo una quindicina d’anni, siamo ancora protagonisti in ottica trionfo finale – quantomeno in linea teorica. In fondo però né Kukuhskin, né l’eroe Golubev hanno raccolto quel terzo punto necessario per spegnere il sogno di Roger Federer, a caccia a 33 anni di uno degli ultimi allori che mancano dalla sua fornitissima bacheca (detto che l’oro olimpico è davvero chimera, probabilmente l’ultimo perseguibile). Bravi lo stesso, ci siamo detti, bravi, perché in patria di sicuro nessuno si sarebbe aspettato che tanto vicini al successo i propri giocatori si sarebbero spinti. Ad usare i termini “patria” e “propri” però trasaliamo dal momento che Golubev e Kukushkin, senza esagerare, se guardassimo alle loro carriere, sarebbe quasi più ovvio giocassero per l’Italia, se non per la Russia, piuttosto che per il Kazakhstan, ma la storia della federazione kazaka tentatrice, che depreda, da qualche anno, le selezioni degli Stati più o meno limitrofi è nota da tempo. E, nella mia ignoranza, mi sono sempre domandato quale fortuna fosse nascere e crescere tennisti di un certo valore ad Astana o ad Almaty, le due città che si sono succedute capitali da quando la repubblica kazaka si è staccata dal potere centrale moscovita, con tutte le disponibilità manifestate. Lo pensavo anche in virtù del fatto che in realtà un discreto prospetto proveniente da quelle terre esiste: oggi, però, ho avuto la riprova che non sempre quello che si pensa corrisponde alla realtà.
Zarina Diyas, perché è di lei che sto parlando, non avrebbe, in realtà, più di tanto bisogno di aiuti e sostegni, soprattutto da quando, 15 giorni fa, ha bagnato il suo esordio nella top-100 grazie al titolo in un 50.000$ cinese ed al secondo turno, dopo qualificazione, a Miami. Giovane, perché coi suoi 20 anni e mezzo davanti in classifica ha soltanto 7 giocatrici più “verdi”, è però da tempo sulla bocca degli addetti ai lavori, a causa di una sfavillante epifania sul circuito che ne aveva svelato le stimmate della campionessa. “La passione mi nacque guardando i tornei dello Slam alla tv e decisi che era quello che volevo diventare; ebbi la fortuna di iniziare a praticare il tennis a 6 anni, a Praga, città dove la mia famiglia si era spostata un anno prima, col mio primo coach, che mi ha seguito per buona parte della carriera, Jaroslav Jandus. Da junior colsi subito risultati importanti, che mi spinsero nella top-20 mondiale, tanto che decidemmo fosse inutile perdere altro tempo e fosse ora di lanciarmi nel professionismo.” Se il buongiorno si vedesse sempre dal mattino, Diyas sarebbe una giocatrice come minimo da top-ten: poco dopo aver compiuto i 15 anni vinse il titolo di Astana, in un 25.000$, titolo bissato nel luglio dell’anno successivo nel più ambizioso scenario di Stoccarda, preludio al primo vagito di una futura campionessa.
Forte del fatto di essere formalmente una tennista di formazione ceca, nel 2009 ricevette una wild card per il tabellone principale del torneo WTA di Praga. Nessuna paura per la giovane, capace di eliminare al primo turno una coetanea di gran lunga più famosa come Kiki Mladenovic e poi l’astro nascente casalingo Petra Kvitova, la stessa che due anni dopo, nello stesso periodo, sarebbe stata additata, in modo alquanto sprovveduto, come la nuova Martina Navratilova. L’esperienza e la maggiore sagacia di Iveta Benesova avrebbero infranto la corsa della giovane kazaka ai quarti di finale, ma nulla sarebbe risultato sminuito agli occhi degli osservatori che avrebbero continuato a valutare i progressi di Zarina, fino a quando, nei primi mesi dell’anno successivo, a frenarne l’ascesa sarebbe stato qualcosa di più subdolo di una semplice avversaria. “Ebbi un infortunio alla spalla e lì per lì decidemmo non fosse il caso di operarsi, ma fu una valutazione errata, perché a questo siamo comunque giunti, esattamente un anno dopo”. Il rientro è stato ricco d’insidie, ma a preoccupare, più che il tempo da spendere in allenamento, erano i risultati, che non infondevano quella fiducia necessaria per intraprendere un cammino tortuoso come può essere quello di una giovane ragazza con l’ambizione di diventare una protagonista del tennis mondiale.
Dopo un lassismo perdurato anche troppo, arrivava il cambiamento atto a rimescolare equilibri che non le restituivano più la giusta armonia: addio Praga, addio Jandus, era arrivato il tempo di Guangzhou e di Alan Ma, che nel frattempo si era liberato dai vincoli contrattuali che lo legavano alla cinese Peng Shuai. Oltre a Ma, un’altra figura di un certo spessore è entrata a far parte della sfera professionale della giovane kazaka, “nel tennis moderno la componente fisica è fondamentale e lavorare al fianco di Stefano Baraldo non può che essere un piacere per me, lui è il miglior preparatore che si possa desiderare di avere, è stato sicuramente determinante per la mia entrata nella top-100 e credo che lavorare con lui mi porterà ancora più in alto”. In effetti negli ultimi 6 mesi le quotazioni della Diyas sono enormemente cresciute, con due titoli e due finali in manifestazioni ITF d’alto livello, e soprattutto il terzo turno, partendo dalle qualificazioni, agli Australian Open, il primo Grande Slam a cui Zarina abbia preso parte nel main draw “Dopo la gioia di essere entrata nel novero delle prime 100 giocatrici al mondo, ed aver saggiato quanto sia più duro, ma anche più stimolante, raffrontarmi in maniera costante con le campionesse della Wta, per quest’anno mi accontenterei di chiudere l’anno tra le top-50, ma a lungo termine voglio aggiudicarmi un titolo Slam”. D’altro canto, è stato il primo desiderio che ha espresso vedendo una pallina in tv.
Prima la Repubblica Ceca, ora la Cina, eppure Zarina Diyas non ha mai avuto dubbi nel non abbandonare la sua terra d’origine, il Kazakhstan, dove ancora vivono la sorella più giovane e la madre, che lì vi gestisce un’attività. Quasi inevitabile, quindi, chiederle di quanto la stia aiutando una federazione che negli ultimi anni ha sottratto, nel solo campo femminile, Voskoboeva, Shvedova, Putintseva e Karatantcheva: buone giocatrici, per carità, in certi casi arrivate anche un pochino mature sotto l’egida kazaka, ma nessuna, eccezion fatta per la Putintseva, con un futuro roseo pari a quello di Zarina. “No, la federazione non mi sta in alcun modo sostenendo” chiosa lei, senza lasciar trasparire null’altro, come se fosse una consuetudine, come se stessimo parlando di un Paese dove è noto che i soldi scarseggiano ed i rappresentanti sono costretti a racimolare denari qua e là. Niente di tutto questo, eppure è così, come se in Kazakhstan il proverbio “l’erba del vicino è sempre più verde”, fosse ragione di vita più che un maldestro luogo comune, quando invece sarebbe più logico cogliere il frutto della propria terra. E Almaty, paese nativo di Zarina, significa proprio “il posto con le mele”. E se non la cogli, quella mela, prima o poi…
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