di Marta Polidori
L’intervista a Giovanni Bianchi è probabilmente la più lunga che io abbia mai fatto fino ad ora. Lunga, impegnativa, ma che mi dà grande soddisfazione. Ne ho approfittato visto che ha sviluppato bene tutti i concetti. Innanzitutto è un soggetto decisamente alla mano, gentile, simpatico e molto disponibile. Seconda cosa quello che mi ha detto l’ho ritenuto molto interessante, forse dissacrante su certi punti, ma che dà tanto su cui riflettere. Maestro all’Accademia Tennis Apuano, che opera al Tennis Pistoia, Tennis Marina di Massa e da un po’ di anni al Tennis Colli di Luni a La Spezia.
Chi segui?
“…Io non seguo nessuno, nel senso che siamo un gruppo di maestri. Mi occupo di coordinare al meglio la parte tecnica, ossia linee guida di collaboratori e cercare di dare un’idea abbastanza chiara del progetto ai genitori. Poi c’è il mio socio che è il vice, Niccolò Righetti, che invece si occupa di raccordare l’area atletica, ossia passare informazioni sotto quell’aspetto nei vari centri, e dell’organizzazione (se vedete roba scritta nel blog è tutta sua) e ovviamente mi dà una mano in campo assieme agli altri collaboratori: Valentina Sassi, Niccolò Sanna e Diego Cagnoni.”
Come hai cominciato?
“Io ho cominciato visti i miei limiti tennistici (sono stato un buon B1 e attorno ai 900 del mondo, giocai un anno da pseudo-professionista), mi sono accorto che quella non era la mia strada. Siccome il tennis mi piace molto ho pensato bene di proseguire in questo mondo.”
In base a cosa si sceglie un talento?
“Non scelgo talenti. Secondo me il talento non esiste. Per me il talento è un ragazzo che vuole fare attività seriamente, disposto ad allenarsi con sacrificio e con tutto ciò che comporta, quindi l’organizzazione della giornata, una certa disponibilità dei genitori a seguire un percorso, mettiamoci se vogliamo una certa attitudine non così scontata per questo sport, perché ci vuole, ma basta. Questo è l’unica cosa che ci vuole per intraprendere un percorso. Io non ricerco talenti, devo fare il mio lavoro, quelli li ricerca la Federazione, ma mi occupo di tirare fuori il meglio rispetto al contesto su determinate fasce. Per ora la nostra fascia di competenza è il livello giovanile; stiamo cercando di fare per il meglio, dobbiamo fare ancora meglio, perché ci sono aspetti che vanno migliorati, però eccoci qua.”
Come hai trovato il livello tennistico del Lemon Bowl?
“Questa edizione del lemon Bowl è stata sicuramente numerosa, ma da un punto di vista qualitativo è un’edizione normalissima. Io ho avuto due giocatori in finale, è un’edizione diciamo di seconde linee, ma a noi non interessa vincere, interessa andare ad un torneo, fare esperienza riguardo alla gestione della giornata di gara, al match… Poi che sia Lemon Bowl o che sia qualsiasi altra cosa non importa. Qua veniamo molto volentieri per due motivi: il primo è che si abbattono le spese perché si sta in camping e ci si cucina, il secondo mi sembra che qua ci sia il livello giusto per i nostri, che sono buoni giocatori a livello nazionale e di seconda fascia. Se avessi avuto pseudo-fenomeni, perché secondo me a livello giovanile parlare di fenomeni è sempre sbagliato, magari sarei andato all’Orange Bowl.”
Cosa ne pensi delle nostre giovani promesse?
“Io mi occupo di ragazzi che aspirano a giocare con le promesse italiane, credo che la Federazione stia facendo benissimo. Ha come obiettivo dichiarato, più o meno, di distruggere noi circoli, che dobbiamo relegarci in una fascia medio-bassa sul bacino di utenza e sul reclutamento. La federazione ha messo in atto questo piano, sotto questo punto di vista giustissimo, dove attraverso i centri federali reclutano i migliori e li allenano. Credo sia la scelta giusta, perché a capo c’è gente molto competente, validissima, per le poche volte che ho avuto a che fare con Infantino davvero tanto di cappello. Così come al vertice c’è Palmieri, che è uno che il tennis non è che lo conosce, lui forse è il tennis, quindi sicuramente questi giovani esprimeranno il massimo, poi quale sia il loro massimo chi lo sa.”
Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere questa carriera?
“Non ricordo chi, ma diceva: ‘Per fare un giocatore di alto livello ci vogliono tanti soldi e un buon giovane con le palle’. Direi che così siam buoni tutti. Se mi dai uno così perfetto! Io credo che il consiglio sia approcciare a questo sport come formazione personale e poi attraverso degli step, perché non si può navigare a vista, approcciarsi in maniera più o meno graduale al professionismo. Come arrivarci è un discorso lungo; io ho le mie idee, ma sono quelle di uno che per ora non vale nulla e quindi me le tengo per me.”
Genitori e allenatori invece…
“Genitori e allenatori… io parlerei di persone. Credo che ci voglia rispetto dei ruoli e ciò significa che un genitore deve monitorare. A me piacciono poco i cartelli fuori dal campo ‘vietato assistere alle lezioni’, no, io da genitore pretendo di vedere se mio figlio viene educato correttamente e se il maestro lavora. Poi, per vedere se un maestro lavora o no non ci vuole uno scienziato, quando uno si impegna si vede, poi sul merito un genitore non può entrare ci mancherebbe. Cosa deve fare un buon genitore? Quello dipende dal ragazzino. Io credo che si debba vedere da caso a caso. Quello che noi chiediamo ai genitori sempre è di non assistere ai match, non perché non sia giusto, ma se vogliamo trasmettere un messaggio, chiaro, che è: ‘ragazzo il tennis è roba tua, gioca’ è ovvio che se c’è fuori un genitore che freme il messaggio che passa è ‘a mio padre o a mia madre interessa quello che faccio, quindi forse non è solo roba mia’. Siccome un ragazzo a 14-15 anni cambia, le donne anche prima, questo cambiamento alle volte forse viene fatto male, se così si può dire, per un equivoco di fondo: ‘per chi gioco?’. Ecco, io ai genitori se mi posso permettere questa domanda gliela porrei, per chi gioca vostro figlio? O meglio, che messaggi fate passare affinché vostro figlio giochi solo per sé?”
Ed un genitore che fa da allenatore al proprio figlio?
“Un genitore che fa l’allenatore ha dei vantaggi come degli svantaggi. Il vantaggio è che ha la situazione sempre sotto controllo, gli svantaggi sono ovviamente la confusione dei ruoli, però ripeto non esiste una strada sola. Se esistesse andremmo da chi ce l’ha, magari pagando tanti soldi. Certo se la domanda è se vedo dei rischi in un genitore che fa l’allenatore è certo che io li veda, molto di più che in un genitore con un buon allenatore. Meglio un genitore attento comunque. Fino a un certo punto però, perché può darsi che questo non abbia le competenze tali a fargli fare il salto di qualità e probabilmente va bene fino ad un momento e poi si affida ad altri. Anche lì bisogna vedere che persona è e quanto ci investe emotivamente.”
È più facile allenare un bambino o una bambina?
“Un grande psicologo dello sport che mi ha dato una grande mano mi diceva che il modello delle donne è un po’ più facile da inquadrare, perché generalmente la donna da un punto di vista tecnico e didattico fa quello che un uomo tendenzialmente fa 15 o 20 anni prima, forse adesso questo gap si è ancora ristretto. Lavorare con una ragazza rispetto a questo aspetto qui è più semplice perché ha dei riferimenti più chiari. È evidente che ci siano differenze morfologiche, soprattutto riguardo l’anca; da un punto di vista motorio invece mi affiderei di più a quelle che sono le fasi dell’apprendimento e lì mi sembra che rispetto a uomini e donne le cose vadano a cambiare dopo gli undici anni, quando comincia uno sviluppo diverso rispetto ai sessi, quindi se io ho un ragazzino e una ragazzina di otto o nove anni li faccio anche allenare insieme, perché da un punto di vista motorio sono davvero simili. Dopo bisogna fare attenzione, perché passati i dodici o i tredici si entra in una fase più difficile.”
Se tu avessi a disposizione un bambino e potessi decidere tutto, da quando dargli la racchetta in mano, ai ritmi ecc…
“Prima andava di moda dire di non farli giocare troppo perché si stufano, in realtà è come giochi e con quale pressione esterna a fare la differenza; un ragazzino deve giocare molto e poi potremmo aprire un capitolo grandissimo sulla specializzazione. Cosa vuol dire specializzare? Ogni volta che sento parlare di specializzazione precoce ho sempre un po’ un dubbio che non si parli invece dell’attitudine ad esprimere un tennis, quindi per me quella non è specializzazione precoce, ma semplicemente l’assunzione di fattori che determinano un percorso erroneo. È banale dire che una specializzazione può essere precoce se fatta correttamente, cioè se un ragazzo fa esperienze motorie ricche e tecnicamente lo mettiamo in condizioni di allenarsi su molte cose e di suo ha la capacità di automatizzare abbastanza presto, ma perché no? Se questo però vuol dire imparare il diritto e il rovescio, aspettare la palla corta e buttare il servizio di là, per l’amor di Dio ammazziamoci. Un ragazzino dovrebbe giocare e fare molte esperienze motorie.”
Gli faresti fare anche un altro sport?
“Ma certo. Lo farei giocare a rugby, ad un ragazzo di sedici anni gli farei fare pugilato ad esempio, perché ti mette in una condizione di aggressività molto simile al tennis, non capisci benissimo il concetto di pausa. Nella boxe se mandi un cazzotto a vuoto e ti lamenti ne prendi quattro e capisci che l’errore non va subìto, ma elaborato. Insomma, ci sono molte cose di cui parlare e per l’appunto ad un ragazzino gli direi di fare molte cose fino a sette o otto anni e di giocare almeno tre volte a settimana a tennis fatte bene, di cui una in maniera già specifica. Specifica non vuol dire la lezione privata, ma che quella volta colpisci un miliardo di palle in duemila maniere. Fai attività tutti i giorni, a nove anni iniziamo a parlare di cosa sei e in rapporto al tuo occhio, a come vedi la palla, poi da lì mettiamo giù un progetto.”
Un altro argomento controverso è il tennis e la scuola…
“Con i nostri ragazzi si fa ogni dieci giorni una riunione, noi la chiamiamo preparazione mentale forse in maniera un po’ ambiziosa e non corretta, ma il concetto è quello di incidere un po’ su quell’aspetto. Non da un punto di vista tattico, ma propriamente della formazione del ragazzo. Se noi cominciamo a dare la colpa alla scuola… quella c’è e forse è vero che da altre parti sono più avvantaggiati, io però vedo Walter Trusendi, che gioca da noi, che può esplodere ed è uscito con un grande voto. Voglio dire che si possono fare entrambe le cose, ma che cosa chiede allora il tennis? Verosimilmente una scuola che sia un pochino più agile, il ragazzo non deve smettere di andare a scuola altrimenti il messaggio che passa è sbagliato. Deve continuare, trovare quella che gli permetta di fare attività, e ce ne sono. Poi leggo di ottime esperienze americane tra college e università e lì sinceramente non so. Vero è che l’età per l’esplosione nel tennis è cresciuta tanto e quindi credo che se devo dire una cosa è che è vietato smettere di studiare e se la tua attitudine è diventare un professionista fallo due volte al giorno e come diceva Piatti, ossia ‘se tuo padre lavora otto ore al giorno tu lavori otto ore al giorno? No, hai fortuna e giochi’. Se non hai quell’attitudine è inutile che non vai a scuola, perché spesso ho visto gente che lavorava tre o quattro ore al giorno e non andava a scuola. No, se non vado a scuola è perché sono mentalmente preparato a stare in campo, fare atletica, stretching, vedere video eccetera, però per otto ore al giorno. Allora si trova la scuola che sia compatibile con il tuo livello tecnico e mentale.”
E’ importante avere un coach privato?
“Un coach privato a livello giovanile no, è necessario quando si è pronti mentalmente e si comincia a fare attività per venti o venticinque settimane all’anno fuori, quando c’è bisogno di uno che riesca a leggere la partita, che dia qualche cosa che da solo non so darmi. Il resto sono tutte coperte di Linus e soprattutto molto spesso diventano interpretazioni erronee del percorso. Se tu a dodici anni hai bisogno del coach a quattordici hai bisogno del santone! A diciotto probabilmente di uno sciamano. Io credo che un ragazzo debba avere i suoi spazi specifici, ossia ci vuole cura nel monitoraggio della gara. La domanda è ‘un ragazzo di dodici anni buono deve essere monitorato in gara?’ e la risposta è sì, ‘per tutto l’anno e per quanti tornei?’… a mio giudizio otto o dieci tornei, non di più, anche perché c’è un aspetto economico. Dal punto di vista dell’allenamento un ragazzo deve avere anche quegli spazi per lavorare tecnicamente e atleticamente, ma poi deve metterci anche lui del suo perché se no diventa un giocatore preda di un meccanismo in cui è sempre a rimorchio di quello che gli si dice. Nel campo da tennis fortunatamente devi andare tu, l’allenatore non può costantemente impartire, deve solo suggerire. Quello che riesce ad aprirti gli occhi su aspetti che forse da solo non riusciresti a vedere.”
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