di Luca Brancher
La prima finale challenger dell’anno, quella di Noumea, ci ha regalato un avvenimento numerico senza precedenti. Scopriamo quale.
Quando, nel dicembre del 2009, Steven Diez decise di riabbracciare le sue origini e rappresentare la foglia d’acero nel circuito mondiale, invece dell’inflazionata Spagna, la federazione canadese strizzò l’occhio all’eventualità dal momento che avrebbe potuto colmare una lacuna relativa alla mancanza di confidenza delle proprie giovani leve sulla terra battuta. Sicuramente Diez non poteva essere considerato una rising star di prima qualità, ma lavorandoci attentamente erano sicuri di poterne ricavare un giocatore spendibile in futura ottica Davis. Alla luce di tutto questo chissà cosa avranno pensato scoprendo che la prima finale, a livello challenger, ottenuta dal loro pupillo acquisito è avvenuta a Noumea, cemento della Nuova Caledonia, una tappa fissa e imprescindibile sulla via delle qualificazioni per l’Australian Open. Certo, lo scorso anno, sempre a livello challenger, aveva colto due semifinali sulla terra battuta, e i suoi frequenti trionfi a livello ITF (10 su 12) erano stati colti sulla “superficie madre” – considerando che Steven mantiene la sua sede di allenamenti nella penisola iberica – per cui mai avrebbe pensato di cominciare così bene la stagione 2014, quella in cui compirà 23 anni, a maggior ragione dopo gli appena 10 punti vinti nel primo set del match inaugurale contro Blaz Rola, lo sloveno di matrice yankee. Superato in maniera fortunosa quel momento, così come la semifinale contro l’amico irlandese James McGee, Diez ha potuto ritagliarsi un posto in finale: i primi complimenti, ricevuti via twitter, sono stati da parte di Danny Da Costa, il primo coach, quello che lo ha iniziato alla disciplina quando ancora viveva nell’Ontario, e che mai lo ha virtualmente abbandonato. E mentre il più noto e più promettente Vasek Pospisil coglieva una beneaugurante semifinale a Chennai, la risposta dall’Oceano Pacifico di Steven perveniva forte e chiara. Diventare un idolo canadese è impresa ardua, ora come ora, ma mai dire mai…
Idolo, in Colombia, invece è Alejandro Falla. Anzi, il 30enne di Calì lo si potrebbe proprio definire, in barba al proverbio latino, un profeta, perché il feeling con la sua nazione, la Colombia ed i suoi campi, è da sempre vivo, sin da quando, all’inizio del decennio scorso, cominciò a calcare i manti delle periferie del tennis mondiale: 3 vittorie futures e 2 finali, tutto in casa, ad esclusione di una escursione in El Salvador. Un caso? Non si direbbe valutando i suoi successi un gradino più in alto, nei challenger, dove, dei 9 titoli, 7 sono stati conquistati in Colombia (due nella città natale di Calì, tre a Bogotà, uno a Pereira e a Barranquilla), andando a segno, fuori dai confini, soltanto a Salinas e a Rennes; risulterebbe meno legato alle radici natali nelle finali raggiunte, anche se, pure in questo caso, l’ultima finale colta al di fuori dalla Colombia risale ad oltre sei anni fa (a Bratislava, ricco challenger di fine 2007, in cui si eresse ad idolo indiscusso Simone Bolelli, capace di aggiudicarsi il titolo finale annullando match point nei quarti contro Capkovic, in semi contro Berrer e in finale contro lo stesso giocatore colombiano appunto). Lo scorso anno approfittò infine della nascita di un appuntamento nell’estate boreale a Bogotà per togliersi lo sfizio della prima finale ATP, dove però dovette cedere al redivivo Karlovic. Falla=Colombia, ma sarebbe comunque limitativo, perché nell’ottica, sbagliata, secondo la quale ogni avvenimento, a prescindere da chi ne sia l’autore, è legato in maniera indissolubile agli esiti e alle sorti dei grandi di quest’epoca, Alejandro non può non essere associato al nome di Roger Federer. Per ben quattro volte il 30enne di Calì ha incontrato, nel corso delle prove Slam, l’elvetico detentore del record di titoli major, e se nelle prime tre occasioni la sua apparizione fu da reietta comparsa, nell’ultimo confronto, a Wimbedon 2010, fu molto vicino ad anticipare la fine della corsa di Roger, andando a servire per il match nel corso del quarto set, prima di cedere di schianto e regalare all’avversario la 200esima vittoria nei tornei dello Slam. Falla è spesso ricordato per questo motivo, in pochi sanno o vogliono ricordare le tre vittorie contro top ten sempre negli Slam (Isner a Wimbledon 2012, Fish a Melbourne 2012, Davydenko a Wimbledon 2006) oppure i quarti sfiorati al Roland Garros nel 2011. No, Falla è il (quasi carnefice) di Federer, così come Stakhovsky lo sarà realmente dello stesso svizzero, Darcis e Rosol lo sono di Nadal, ecc. ecc. Che tristezza, però.
Alejandro, per cominciare il 2014 in maniera fuori dagli schemi, ha partecipato per la prima volta al torneo di Noumea, dove, essendo l’unico giocatore inserito tra i primi 100 del ranking Atp, era la prima testa di serie e il logico favorito per il successo finale. Senza troppi intoppi, se si esclude un set ceduto in semifinale ad Adrian Menendez-Maceiras, il sudamericano volava all’atto conclusivo, dove, come già anticipato, si sarebbe trovato di fronte la sorpresa del torneo, il canadese di Spagna Steven Diez: sarebbe stato il loro primo confronto. La critica che ultimamente sento nei confronti del tennis attuale – e che mi trova concorde – è legata al fatto che il gioco attuale sia troppo omologato, con i giocatori che tendono ad assomigliarsi negli schemi, nelle tattiche e nelle strategie, oltre che nella tecnica, e dove i pochi giocatori “diversi” vengono difesi e protetti come nemmeno accade ai panda nel mondo animale. Siamo arrivati a rimpiangere tennisti che all’epoca mai avremmo immaginato, proprio a causa di questa scarsa diversificazione: quello che è accaduto nella finale di Noumea, però, per quanto concerne l’eccesiva similarità, è senza precedenti. Il risultato finale, un doppio 6-2, darebbe l’idea di una partita a senso unico, con due parziali scorsi via senza grandi sussulti. Tutto vero. Due parziali identici nello svolgimento, anche troppo però. Andando a guardare le statistiche di fine match, si scoprono curiosità al limite del paradossale.
Nell’intera partita si sono giocati solo 86 punti, di cui 52 vinti da Falla e 34 da Diez. I punti sono perfettamente suddivisi sui due set (26-17 in ciascuna frazione). Diez ha giocato 22 punti al servizio per set, vincendone 12 e perdendone 10, situazione che in entrambi casi gli è costata 2 break, a fronte di 2 servizi portati a casa. Ancora più clamoroso il fatto che la percentuale di prime palle in campo a fine match, pari al 72,7%, si ripropone in entrambe le frazioni, 16 su 22. L’unica variabile a differenziarsi sono i punti ottenuti con la prima (10 nel primo set, 8 nel secondo) e di conseguenza quelli vinti con la seconda (2 nel primo set e 4 nel secondo), oltre alle palle break concesse (rispettivamente 2 e 4). Non molto differente la situazione nel corso dei turni di battuta di Falla, con 32 punti vinti in totali e 10 persi perfettamente ripartiti tra le due frazioni (17-5), con piccole discrepanze nel novero delle prime e delle seconde messe in campo (14-7 ed un doppio fallo nella prima frazione, 13-8 nella seconda ed un doppio fallo nella seconda), ma è esattamente uguale il numero di punti vinti con prima e seconda (11-5), cambia di poco invece il numero di punti conquistati in risposta da Diez (3-2 nel primo, 2-3 nel secondo). Visto che, giunti qui, la quantità di dati è piuttosto abbondante e genera confusione, propongo un piccolo sunto per rendere ancora più vivide le similitudini.
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