di Luca Brancher
Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente.”Quando ti vien voglia di criticare qualcuno” mi disse “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.”[Il Grande Gatsby]
Ad Edouard Roger-Vasselin, per quanto possa sembrare incredibile, se non increscioso, non era mai passato minimamente per la testa. Quello che lui voleva fare, nella vita, era esattamente quanto intrapreso dal padre, Christophe, spintosi a peregrinare nel mondo per inseguire una chimera, che poi tale non si era rivelata: fare il tennista. Eppure Doud non ci aveva pensato, che l’esperienza del padre potesse essere un’importante guida e una fonte da cui abbeverarsi, lungo il percorso che gli avrebbe permesso di calcare le sue tracce. Strano, ma vero. A rivelarlo fu lo stesso Edouard, a poche ore da un successo che gli garantì una certa notorietà. Aveva appena battuto il campione uscente degli US Open.
L’anno era il 2009, e la vittima era stata l’argentino Juan Martin Del Potro. Lo scenario, in un certo qual senso ideale, perché una meta piuttosto lontana dal sobborgo parigino di Genneviliers in cui era nato e cresciuto, la multimediale Tokyo. E la corsa di Roger-Vasselin non si sarebbe di certo fermata lì, visto che due giorni dopo si sarebbe pure liberato di un’ostica minaccia, costituita dall’austriaco Jurgen Melzer – rimarrà un fuoco di paglia all’interno di un periodo piuttosto nefasto (scopriremo poi il perché) . “Sì, mi sono veramente reso conto di quanto potessi essere stupido, ma mai ho chiesto realmente consigli a mio padre nel corso della mia carriera.” A quel punto, come l’etica e la logica, corretta seppur banale, del giornalismo impone infatti erano scattati i paragoni, arditi, ma che rendono lo sport materia da lettino dello psicanalista. “Riuscirai a ripetere le gesta di tuo padre?”
Edouard Roger-Vasselin era nato, il luogo è già stato menzionato, a fine novembre del 1983, regalando una gran gioia al padre, che in quella stagione, di soddisfazioni, se ne era tolte diverse. Non è stata tuttavia una carriera realmente brillante, quella di Christophe, umile mestierante della racchetta, con un gioco tutt’altro che appariscente, che come miglior risultato poteva vantare una finale nel torneo Grand Prix di Monaco di Baviera e davvero troppe battute d’arresto al primo turno. Quando però solcava la terra battuta di Parigi, qualcosa in lui si trasformava: avveniva un cambiamento, e quel timido ventenne transalpino diveniva un guerriero infuocato, pronto a non lasciare nemmeno una pallina. Qualcosa si era già visto nel 1981, quando il sorteggio improbo contro Jimmy Connors all’esordio non gli aveva impedito comunque di disputare un match di un certo prestigio, avvalorato da un set vinto. Quello che nessuno avrebbe supposto è che lo stesso incontro, 24 mesi più tardi, sarebbe valso un posto in semifinale. E che questi sarebbe poi spettato a Christophe Roger-Vasselin.
Succede talvolta che giocatori non di primissimo piano vengano rimembrati per un unico torneo, od in taluni casi per una singola partita, come se 15 anni di onesta carriera fossero nel ricordo di tutti un’inezia, o solo un modo, sconosciuto, per potersi meritare di competere in quell’unica manifestazione per cui verranno innalzati, prima di disputare un’altra serie di incontri che saranno utili soltanto per consentire ai cronisti di citare quell’episodio. Benjamin Becker, ad esempio, è l’ultimo carnefice di Andre Agassi, Roberto Carretero il trionfatore a sorpresa di Amburgo (qui a dire il vero c’è una carriera a tal punto corta che non è che ci sia molto altro da raccontare), Lukas Rosol il boia di Nadal – anche se poi è arrivato Steve Darcis – e via dicendo. Christopher Roger-Vasselin è invece l’uomo del Roland Garros del 1983.
L’edizione del Roland Garros di 30 anni fa permane vivida nell’immaginario collettivo del popolo francese perché ad oggi è l’ultima nel cui singolare maschile a trionfare è stato un connazionale: Yannick Noah. Lo strepitoso torneo del talento nativo di Sedan non oscurò completamente la prestazione hors catégorie di Roger-Vasselin, capace di issarsi fino alle semifinali, nonostante un periodo di forma piuttosto scarso (arrivava da 6 primi turni di fila). La vittoria in rimonta al terzo turno contro Heinz Gunthard funse da reale spartiacque tra un torneo positivo ed uno da ricordare, ma fu il match dell’ultimo giorno di maggio contro Jimmy Connors a consegnare Christophe all’imperitura memoria. “Conscio di quanto accaduto due anni prima, sapevo di avere le mie chances per non sfigurare. E più passava il tempo, più vedevo chiaramente che si creavano dei margini per uscire con la vittoria in tasca”. Peccato che le stesse sensazioni non siano emerse due giorni più tardi. “Avevo anche qui un buon ricordo, una partita ai Nazionali di Nizza in cui avevo conquistato i primi due parziali prima di venire sconfitto al quinto. Yannick, però, giocò magnificamente e non mi lasciò alcuno scampo.”
Tre giochi vinti, tutti nel primo parziale, furono una magra consolazione, ma la verità è che quel torneo mirabile non concesse solo la gloria e il best ranking (numero 29 ATP nell’agosto successivo) al transalpino, ma anche un problema che ne condizionò, fino al ritiro, la carriera: la schiena non dava più le garanzie di un tempo, i dolori si susseguivano. Da quel giorno ci sarebbero state poche manifestazioni disputate, pochissime vittorie (unico acuto un challenger di Brescia nell’estate del 1984) fino al ritiro, dopo una rocambolesca sconfitta nel primo turno del Roland Garros 1985 contro Blaine Willenborg. Non aveva ancora compiuto 28 anni. Da lì all’insegnamento la strada era spianata, e, per un piccolo periodo, alla fine del secolo scorso, capitò che seguisse un gruppo di ragazzi tra i 15 ed i 17 anni, tra cui c’era anche suo figlio, Edouard. “Ma non appena fu chiaro che poteva emergere, lo mandammo da qualcuno che lo seguisse in maniera più approfondita.” In effetti il giovane Edouard non giocava malaccio: a 18 anni si è laureato campione nazionale di categoria ed i presagi per una discreta carriera c’erano tutti. Certo bisognava fare i conti con alcune lacune evidenti. Se dal lato del rovescio Roger-Vasselin è un tennista da ammirare, il dritto non è un colpo altrettanto affidabile, ed in generale pecca di quel “punch” che, col tempo, si è reso necessario per scalare la classifica mondiale. Magari quando giocava il padre “Ma non ha senso pensarlo, 30 anni fa era tutto diverso, e poi siamo giocatori troppo differenti.” Forse anche per questo il padre non è mai stato interpellato a sufficienza. Forse.
Se stiamo ora parlando dei Roger-Vasselin, è perché, con l’ultimo aggiornamento del ranking ATP, Edouard ha superato una soglia che, francamente, era difficile attendersi: l’entrata tra i 50 migliori giocatori del globo. Lo ha fatto al termine della sua migliore stagione sul circuito Pro, quella che finalmente migliora il 2007, l’anno in cui il francese ha rotto gli indugi, trasformandosi da giocatore che “se va bene faccio i challenger” a tennista capace di imporsi negli Slam. Nel giro di un mese, Edouard colse due terzi turni, a Parigi e Londra. Con le ovvie conseguenze del caso, perché se dici “Roger-Vasselin ha superato un nuovo avversario” nella capitale francese, vuoi che qualcuno non faccia 1+1 e gli ricordi del padre?
“E’ vero, però c’è da dire che la fortuna di noi tennisti è che giocando in tutto il mondo le domande sono comunque più varie, in Francia è di rito che mi parlino di mio padre, ma all’estero è molto raro. Inoltre in Francia ci sono a tal punto tanti professionisti, anche più bravi, che non avverto tutta questa pressione da ‘figlio d’arte’ ” Sarà, però dopo quell’exploit, che portò in dote una splendida battaglia vinta in cinque set contro Stepanek, Edouard fallì miseramente due tentativi di qualificazione e, quando nel 2010 seppe meritarsi una nuova wild card per il main draw, la situazione stava precipitando. Affrontava il sudafricano Kevin Anderson, che a quel tempo non aveva raggiunto i picchi attuali, ma per il ragazzo nativo di Gennevilliers sembrava comunque troppo. Dopo 10 giochi, quelli a favore dell’europeo erano appena…1. Vuoi perché nella prima domenica ci sono meno match e i tifosi si concentrano sui pochi connazionali presenti, vuoi perché alla lunga la chiave per il successo Edouard pareva averla trovata, alla fine la rimonta si concluse vittoriosamente, con una fantastica dedica per chi, poco tempo prima, lo aveva anzitempo abbandonato.
Nel luglio del 2009, mentre Roger-Vasselin era impegnato nel challenger di San Benedetto, una chiamata terribile lo raggiunse in mattinata: “E’ morto Mathieu”. Mathieu era Montcourt, altro professionista francese colto da un malore mentre, di notte, stava rientrando nel suo appartamento parigino. Stava scontando una squalifica per una leggerezza legata alle scommesse, e già era intenzionato a pianificare il suo ritorno, con tutta l’esuberanza che può avere un ragazzo solare di 23 anni a ridosso della top-100 ATP. Edouard e Mathieu erano molto amici, e non solo perché le circostanze della vita da tennista ti portano a condividere tante esperienze assieme. Erano stati, con le rispettive fidanzate, in vacanza alle Bahamas l’anno prima, e stavano decidendo se tornare lì oppure cambiare destinazione. Progetti svaniti nel nulla, volatilizzati, come fece Roger-Vasselin nelle successive settimana, in cui disertò il circuito per potersi riprendere dalla botta morale subita. E dal dispiacere.
“Qualcosa, a dire il vero, me lo diceva, ma erano consigli generici su come dovevo affrontare le partite. In fondo, è proprio quello che mi manca, se voglio essere un top-100 fisso, devo imparare ad essere fiducioso nel mio gioco.” Quando nell’estate del 2011 Edouard superò, nell’ultimo turno di qualificazione del Master 1000 di Cincinnati, Steve Johnson, per la prima volta concludeva positivamente un tabellone secondario dei tornei ATP del massimo prestigio, al dodicesimo tentativo: davvero un parco risultato per un tennista capace di qualificarsi tra i migliori 32 in due Slam agli antipodi. A quel punto appariva difficile ipotizzarlo nuovamente spendibile a quei livelli, tanto che, su un sito francese, gli veniva dedicata un’intervista additandolo come “classico giocatore da challenger”. In quel tempo, le vette del padre erano più distanti che mai. C’è comunque da dire che Doud non ha mai avuto paura di viaggiare e di mettersi alla prova. Proprio nella stessa estate lo si è visto fare traversate continentali per vincere prima un challenger sul cemento canadese di Granby e poi fare semifinale sulla terra rossa di Orbetello: tanti punti e tanta esperienza, sulla cui utilità e validità non si può dubitare, nemmeno se hai quasi 28 anni. E se pensi che a quella stessa età tuo padre aveva già appeso la racchetta al chiodo, mentre tu stai perseguendo un ennesimo tentativo di gloria tennistica, allora veramente non puoi lasciare nulla al caso.
Il 2012 sarebbe stato l’anno del ritorno e della stabilizzazione nei 100, il 2013 si caratterizzerà sin da subito per essere l’anno dei picchi di rendimento, sulla scia dell’ottimo quarto di finale raggiunto a Mosca sul concludersi della stagione precedente. Perché nel 2012 qualcosa era mancato, le grandi battaglie, con Fognini a New York e Guillermo Garcia-Lopez a Wimbledon tra le altre, erano state perdute non senza qualche recriminazione. Mancava il successo “sudato” che gli garantisse quel carico di fiducia di cui necessitava per potersi dire pronto a combattere anche ai piani alti. Ed a Mosca, nell’ottobre del 2012, la vittoria per 8-6 al tie break del terzo set contro Dolgopolov assumeva questo significato: anche io posso giocarmela, a queste latitudini.
La cavalcata comincia proprio a Melbourne, col successo per 11-9 al quinto contro il belga Ruben Bemelmans, ma è a Delray Beach che Doud lancia il primo segnale al mondo. La vittoria in semifinale su un gigante come John Isner gli consente l’accesso alla prima finale in una manifestazione ATP, ma soprattutto mette bene in chiaro come questa mancanza di pesantezza rispetto agli avversari sia stata colmata dalla varietà nelle soluzioni derivanti da una nuova coscienza delle proprie qualità. Perdere successivamente con Gulbis non intaccherà il suo splendido cammino, confermato nelle prove successive, laddove soltanto i giocatori d’alto rango saranno capaci di ostruirgli il cammino. Non fosse stato per un nuovo passaggio a vuoto estivo (un classico nelle sue stagioni sul circuito) la semifinale di Basilea (la prima in un ATP 500) avrebbe potuto regalargli un best ranking ancora migliore, ma l’ipotesi che qualcuno, 12 mesi fa, si fosse permesso di auspicarlo, nel giro di 1 anno, nei top 50 era assolutamente peregrina. Per non dire di peggio.
Per quanto sia un amante dei gesti classici e del gioco di fino, il torneo preferito da Edouard è il Roland Garros. Non potrebbe, da francese, essere altrimenti “Quando arriva la primavera, e mi avvicino all’Open di Francia, ogni partita che disputo non è finalizzata alla vittoria o sconfitta, bensì a giungere nella miglior condizione possibile allo Slam. Il mio sogno sarebbe di qualificarmi almeno una volta per la seconda settimana.” Emulare il padre, in effetti, sarebbe troppo. Però, con Doud, si è capito che è difficile sostenere che sia troppo tardi.
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