di Luisa Bosco
7 luglio 2013, finale di Wimbledon sul campo centrale più desiderato al mondo, ma sembra di essere a Roma, al Colosseo, molti secoli fa. In programma c’è la lotta di un gladiatore serbo, feroce e indomito, contro una belva dal crine rossiccio. Il pubblico vuole la morte del gladiatore. Pollice verso contro di lui ad ogni segno di lotta, ad ogni colpo vincente. Pollice alzato per ogni punto della belva, anche quelli che forse punto non sono. Non c’è arbitro a quel tempo, o forse c’ è, ma il pubblico non ha la pazienza di aspettare, vuole che sia fuori la palla serba. Sono 77 anni che aspetta quel sangue, quel sacrificio…ora DEVE esser fuori la palla serba. Per l’occasione, nell’impaziente esultanza di assistere allo scontro, ha dimenticato una rilettura del libro delle regole, impolverato in un cassetto da troppi anni, in cui probabilmente si sono preferiti altri genere di esibizioni.
L’ atmosfera è irreale, sembra una festa, ma c’è in gioco la vita di un uomo. Il serbo cade, scivola più volte sotto le zampate della belva, ma mai un attimo di pietà si fa largo nel pubblico assetato di sangue. Anzi i cori diventano più esultanti, i colori più sgargianti, si mostrano i pugni e si fanno segni di incitamento alla belva: “finiscilo, è tuo, stiamo aspettando! ” sembrano urlare. Il gladiatore serbo è un combattente, ma forse stavolta è troppo anche per lui, tenta una scossa, d’ orgoglio, ma neanche mostra il pugno a quel pubblico, cosciente della sproporzione di forza. E’ stanco, nessuno lo sostiene, sembra intimidita anche la sua donna, unico cuore amico. Alla fine si arrende, non può, non ce la fa, la belva lo tramortisce e si nutre di lui nella speranza di rubargli la forza, il coraggio, la tempra da uomo, da campione, da gladiatore serbo. Il pubblico esulta, l’ astinenza è finita, quel sangue ripaga 77 anni di attesa.