di Sergio Pastena
Nubi che si dissolvono. Tante nubi.
La vittoria di Andy Murray a Wimbledon, oltre ad avverare un pronostico ricorrente che si mordeva la coda da anni e non trovava mai compimento, in fondo dissolve tante nubi e lo fa nel modo migliore. Chi per caso in passato avesse letto qualche articolo dello scrivente sul tennista scozzese saprá bene come Murray non fosse la mia tazza di té: in particolare mi indisponeva il fatto che avesse sacrificato un talent cristallino sull’altare di un gioco da fondo piatto e monocorde, cosa che potevo giustificare se serviva a vincere valanghe di trofei ma non se doveva portare a puntuali disfatte.
Bene, quel che é giusto é giusto e ritengo sia doveroso dare atto al tennista di Dunblane di essere diventato uomo, oltre che tennista. Il percorso é stato lento ed é passato per sfiancanti sconfitte, occasioni perse, sudore e lacrime. Forte coi deboli come Gasquet, ma debole coi forti si diceva. La trama della carriera di Murray non é stata esattamente questa, almeno non due set su tre, ma l’aria di Slam effettivamente lo ha portato in passato a dilapidare parecchie opportunitá tra sconfitte improbabili e rese onorevoli.
Il tutto si é prolungato fino a un’etá non piú verdissima, perché va ricordato che il “bambino” ha 26 anni e si appresta ad entrare nella seconda parte della propria carriera: ora é nel meglio, tra qualche anno chissá. Occorreva quindi vincere subito e bene, per poter svoltare, e in questo senso é piú che opportune ricordare la finale del 2012. Quella finale, diciamo la veritá, era difficilissima da vincere: un Federer deciso a prendere al volo un’occasione che probabilmente non sarebbe piú capitata, un tabú da abbattere e anche un pubblico che, a dirla tutta, era timoroso quasi non volesse infrangere il sogno della clamoroso “rentrée” dello svizzero. Troppa roba.
Infatti la svolta non é stata la partita ma, probabilmente, sono state le lacrime. Quelle lacrime di chi insegue un sogno e se lo vede sfuggire per poco, quelle lacrime che ti fanno capire che la vita é anche quello e che per farcela bisogna soffrire. Quelle lacrime che, diciamola tutta, hanno definitivamente conquistato il pubblico inglese, diviso per anni tra la voglia di vedere la bandierina britannica di nuovo nell’albo d’oro dei Championships e il fastidio di dover tifare per un “proud to be Scottish” al punto di far spostare la Davis a due metri da casa per partecipare (neanche sempre).
Sono state le lacrime della pace, le lacrime della crescita, le lacrime da cui é nata la vittoria di quest’anno. Nonostante un tabellone diventato improvvisamente generoso per le sconfitte di Nadal e Federer, lo scozzese é andato a un passo dal baratro contro Fernando Verdasco, un altro campione di occasioni perse. Stavolta, peró, si é risollevato, perché aveva alle spalle un’Olimpiade vinta e un titolo agli Us Open. Andy aveva imparato “come si fa”.
E l’ha fatto vedere in finale, mettendo a sedere in tre set un Djokovic che domina sí la classifica ma in questo 2013 ha preso ben piú di una cocente stesa. Cosa manca adesso a Murray? Beh, c’é da diventare il primo britannico in testa alla classifica Atp, e non é roba da poco. Il vento é con lui, e si puó dire che se l’é meritato.
Chapeau.
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