Wimbledon, dove tutto ebbe inizio


(Foto Nizegorodcew)

di Marco Mazzoni

Ricordate quelle sensazioni magiche provate da piccoli quando si avvicinava Natale? L’attesa scrutando l’albero addobbato a festa, sognando regali desiderati tutto l’anno… Fino alla mattina del 25, l’alzarsi dal letto di corsa per scoprire cosa Babbo Natale ci aveva portato. Il vero “malato di tennis” prova una sensazione non tanto dissimile quando arriva Wimbledon. Superato lo choc cromatico (e tecnico) del passaggio tra il rosso vivo e le maratone della terra parigina al rilassante verde dei prati del Queen’s, si attende l’ultimo lunedì di giugno. L’appuntamento è con l’essenza del tennis, con Wimbledon, la nostra “mattina di Natale”. Ore 13 esatte, scandite distrattamente dal Big Ben: il campione in carica del più antico torneo di tennis varca le porte degli spogliatoi dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, percorrendo quella decina di metri che lo separano dal centrale, attraversando corridoi adornati da foto stupende dei giganti del tennis. Una passeggiata breve ma vissuta con forti emozioni anche per il Borg, Sampras o Federer di turno, che porta il defending Champion proprio dove 12 mesi prima ha giocato l’ultimo punto vincente, quello che gli ha regalato il successo. L’immortalità sportiva. Inevitabile scrutare la poesia di Kipling “If” (scritta nel 1895 al figlio), posta su di una lapide appena prima di varcare la porta verso il campo, che recita “Che tu possa incontrare il trionfo e la rovina e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo”, presagio di vittoria e di sconfitta, il senso dello sport e della vita. E quindi finalmente calpestare quel prato vergine, dove nessuno ha più giocato un solo 15 dal match point dell’anno precedente. Perdere per un attimo lo sguardo in quel verde che più verde non si può, sfiorando quella soffice meraviglia con le scarpe, che quasi indugiano un attimo nel posarsi sul manto immacolato. Un momento sublime, sospeso nel tempo, interrotto dal composto frastuono della folla che tributa il primo applauso dell’anno al campione in carica, aprendo ufficialmente la nuova edizione del torneo. Incitamento contenuto, perché il centrale di Wimbledon non è un catino anonimo come tanti altri, è il tempio dello sport della racchetta. Si avverte elettricità nell’aria, qualcosa di unico e indescrivibile che quasi si materializza in una presenza fisica, afferrabile, e che ti si insinua giù per le vene. Un brivido che ogni vero “fedele” dovrebbe provare una volta nella vita, proprio come un pellegrinaggio alla Mecca. Sensazioni fortissime per chi ha il privilegio di esser lì insieme agli altri 15mila fortunati sugli spalti; sensazioni amplificate in modo esponenziale per chi ha l’onore di giocare a tennis sul quel rettangolo erboso dove tutto ebbe inizio nel 1877 – anche se il primissimo torneo della storia del tennis lo si giocò qualche centinaia di metri più in là rispetto alla posizione attuale del centrale su Church Road.

Wimbledon è un evento che va oltre al fatto sportivo, è cultura. Anche nei decenni bui in cui la LTA non riusciva a portare in tabellone uno straccio di giocatore decente, tutti in UK si sono sempre interessati ai Championships, più che al tennis in sé. La radio ufficiale del torneo è ascoltatissima e pure i tabloid dedicano ampie pagine al contorno, tra gli ospiti vip e le comparsate della Royal Family (…non della Regina, che detesta il tennis, pur essendo “the patron” dell’All England Club e che qua è venuta un paio di volte controvoglia, preferendo le corse di cavalli). I Championships trasformano l’elegante quartiere residenziale di Wimbledon in un via vai intenso e talvolta disordinato, anche per l’efficiente organizzazione dell’evento. Tanto che fa strano camminare per il quartiere quando non c’è il torneo: tutto è composto, ordinato, quasi banale nella sua bellezza e normalità. Un fascino che porta moltissimi tennisti ad alloggiare non lontano da Church Road, affittando una casa con i classici mattoncini e finestre bianche invece del canonico hotel deluxe, e così godere della privacy e serenità tutta british che solo qua si può trovare.

Non facile descrivere in poche parole le mille sfumature e curiosità del torneo più importante al mondo. Il consiglio è provare quelle sensazioni sulla propria pelle andandoci, anche se non è mica facile… Non esiste una biglietteria online come per un evento qualsiasi, è necessario passare per la “lottery”, sperando di ricevere verso febbraio una busta con il logo di Wimbledon con l’annuncio di aver ricevuto la prelazione per un paio di biglietti (da confermare con il pagamento), assegnati in modo casuale sia per la giornata che per la posizione sul campo; oppure avventurarsi nella pittoresca fila notturna (o almeno dall’alba) anche se è una piccola follia. Anche in questo sta il fascino di Wimbledon, ma soprattutto sta nel superbo e inarrivabile puzzle di elementi nuovi e vecchi, di storia e novità, di bellezza retrò e soluzioni hi-tech, e ancor più nella qualità del gioco e dei suoi protagonisti. Sta nella capacità di resistere ad inutili tentazioni modernistiche e di marketing, creando così il mito Wimbledon (quanto potrebbe valere un brand “Wimbledon” alla borsa di Londra?). Magari in pochi lo notano, ma i Championships sono l’unico torneo senza uno sponsor nei teloni di fondocampo, immacolati nel loro verde. Un marketing al contrario, segno di forza, e classe.

Non ci sono parole adatte a raccontare il fascino del camminare per il club durante il torneo, nelle sue anguste viuzze tra i campi, alcuni con tribune così piccole e scomode che al Challenger di Barranquilla i posti son migliori… Tutto così verde, con quel profumo di legno e vernice appena rifatta, e con l’edera che si arrampica qua e la, con sparute composizioni di fiori bianco-viola a dare un senso di pace e umanità che in altre gigantesche “cattedrali nel deserto” non si potrà mai percepire. Magari investire qualche sterlina nella classica coppa di fragole con panna, e pazienza se non è nemmeno buona (fragole rigorosamente congelate e panna parecchio acida…) ma è un must che una volta va provato. L’unico torneo in cui trovi qualcuno che telefona da un apparecchio pubblico, alla faccia degli onnipresenti cellulari, e dove è normale che alle 5 p.m. diversi spettatori mollino gli scambi per il tradizionale tè, comprese sorridenti famigliole indiane che allestiscono negli spazi verdi un improvvisato pic nic per sorseggiarlo, invitandoti pure a provare i loro pasticcini alla cannella! E che dire dell’abbigliamento degli addetti e del loro humour tutto british nel dare indicazioni, magari raccontandoti spontaneamente aneddoti gustosi (“Sai che ho aperto la porta a Murray l’anno scorso? Ah, sei di Firenze? Ottima la bistecca dalla trattoria Fagioli dietro Santa Croce”) mentre dispensano consigli più o meno utili al via vai cosmopolita che inonda il club. Un’invasione che ha nella coda notturna per strappare uno dei pochi biglietti messi in vendita alla mattina presto per la giornata la sua immagine più colorita. “The Queue”, un’altra delle esperienze che sebbene scomodissima l’appassionato duro e crudo dovrebbe provare una volta. Un’attesa lunghissima, che dura tutta la notte, con gente che gioca a carte, canta, legge, cerca di dormire e ripararsi dall’immancabile “doccia” di pioggia… oppure di imbroccare la belloccia lì accanto, visto che almeno la passione per il tennis già li unisce e gli argomenti per un primissimo approccio non mancheranno… Una notte bizzarra che termina intorno alle 7 quando gli addetti iniziano a dispensare un agognato pezzo di carta, a creare una fila (che può superare anche il chilometro!) più regolare e senza “ammassi”; voucher provvisorio che è quasi garanzia di aver un posto per il centrale o per il n.1, dando la giusta scarica di adrenalina per svegliarsi e vivere la giornata tennistica più indimenticabile della propria vita. Come premio per il valoroso appassionato varcare “The Doherty Gates”, l’ingresso posto a sud ovest del club e immergersi nell’evento che ha trasformato il tennis in mito, e sedere nel rinnovato centrale con il tetto mobile; passeggiare tra i campi vedendo il meglio dei tennisti all’opera e gli shops, sostare sulla “Henman hill” dotata di maxischermo. E magari se non si è trovato il posto per il centrale sperare di ricomprare uno dei biglietti di qualcuno che esce dal campo principale e così gustarsi con poche sterline (date in beneficenza) qualche scampolo di un match alla conclusione del programma. E in caso di probabile scroscio di pioggia, anche assistere all’insuperabile danza dei raccattapalle addestrati per settimane prima del torneo nei prati circostanti, che arrivano preparati quasi come i meccanici della Ferrari a coprire il campo in pochi secondi e così difendere l’erbetta di gioco dal capriccioso meteo londinese.

Colore ma anche tennis al top. La molla che spinge a rischiare la nottata in fila è sì vivere il pacchetto completo di emozioni, ma soprattutto vedere il miglior tennis possibile. Così che anche il più scatenato dei fan una volta che prende parte a questo spettacolo finisce per confondersi nella compostezza del pubblico, senza bandieroni, senza eccessi. Rispettando in rigoroso silenzio il gioco, cercando di carpire ogni attimo, assaporandone ogni stilla. Infatti se chiedi ad un neofita di Wimbledon cosa lo ha colpito di più, quasi tutti rispondono “il silenzio” durante il gioco. Non un cellulare acceso perché il pubblico di Wimbledon è il più preparato, competente e rispettoso possibile.

Il tennis di Wimbledon è il massimo. Andando infatti a scrutare i numeri, i Championships sono non solo il torneo dove tutto è iniziato ma anche quello che vanta la media del ranking dei vincitori più alta. Qua non si vince per caso, non troverete un carneade nell’albo d’oro. E’ il torneo che ha sempre premiato di più il talento, la differenza del campione sul resto della truppa: senza tornare al bianco e nero, le volee magiche di Edberg, i tocchi di McEnroe, gli Ace di Sampras, i passanti di Borg. Tanto che sono davvero pochi i campionissimi plurivincitori di Slam che non hanno alzato la coppa di Wimbledon. Specialisti della terra a parte e restando all’era moderna, si contano sulle dita di una mano gli immortali che non ci sono riusciti. Ivan Lendl su tutti, 2 volte finalista e più volte fermato in semifinale, poi Wilander (7 Slam per Mats ma non Wimbledon), e mettiamoci pure “Big” Jim Courier, che s’è fermato in finale nel ’93 battuto nettamente da Sampras. Pochi altri.

Wimbledon è il torneo dove sono sbocciati talenti purissimi. La mente corre subito a Boris Becker, ancora oggi il vincitore più giovane con i suoi 17 anni, in quella cavalcata straordinaria che nell’85 lo portò al successo con un tennis di una potenza mai vista. Sui sacri courts i più grandi talenti del tennis si sono definitivamente consacrati, come Andre Agassi, già stra-famoso ma che sui prati strappò il suo primo successo Slam nel ’92; Pete Sampras, che aveva già vinto un major a New York nel ’90 ma che iniziò il suo dominio con la vittoria a Wimbledon nel ’93, strappando definitivamente a Becker “le chiavi” del centrale nella bella finale del 1995 e diventando il Re del tennis nei ’90s grazie ad un servizio micidiale e un killer instinct inarrivabile. Tornando un filo indietro, lo stesso Borg, dominatore del rosso, è passato alla storia soprattutto per le sue 5 vittorie in fila a Wimbledon, sdoganando il tennis verso la cultura pop e rompendo barriere impensabili per uno sport ancora d’elite, con le fans che gli lanciavano le mutandine all’ingresso dell’impianto londinese! Arrivando infine al presente, con Wimbledon che è sinonimo di Mr. Roger Federer, 7 volte vincitore ai Championships (record). Dopo qualche anno passato a inventare tennis senza vittorie, sul centre court londinese iniziò nel 2003 la sua leggenda, confermando le sensazioni di lunedì 2 luglio 2001, quando sconfisse a sorpresa proprio Sampras negli ottavi, in quello che si è rivelato un vero passaggio di consegne epocale, in uno degli ultimi veri match “da erba” della storia.

Sì, perché in questa leggenda di torneo non tutto è “come prima”. L’erba è sempre meno verde, martoriata da un tennis agli antipodi della sua stessa storia. Un gioco oggi troppo anchilosato a fondocampo, lontano anni luce dai gesti bianchi degli artisti della racchetta, che con potenza contenuta e talento tecnico sopra la media interpretavano le rapide condizioni di gioco ed i beffardi rimbalzi dell’erba con attacchi continui e pennellate sotto rete. Un gioco veloce, adrenalinico, un braccio di ferro solo tecnico e mentale, non di bruta potenza dal fondo a forzare l’errore come nei nostri (bassi) tempi. Erano spettacoli ancor più godibili perché per tutto il resto dell’anno tra terra battuta e cemento già si assisteva ad un tennis piuttosto orientato allo scambio da fondo, con la quindicina di Wimbledon che proponeva qualcosa di davvero diverso ed affascinante. Fino a circa 10 anni fa Wimbledon riscopriva un’arte antica, tennisti capaci di sorprendere con giocate estemporanee, sempre alla ricerca del punto diretto, dell’attacco, della volee acrobatica, a premiare il talento e la fantasia. Poi tutto è cambiato. Alcune edizioni da metà dei ’90s mostrarono un tennis fin troppo rarefatto, dominato da servizi terrificanti. Per paura che quell’ondata di grandissimi battitori (Ivanisevic e compagnia) durasse all’infinito, si è cambiato tutto. Troppo in fretta, senza capire che quello era un momento storico fatto di una generazione che nei primi anni 2000 si sarebbe esaurita spontaneamente con l’arrivo dei vari Hewitt, Safin, Federer, Ferrero, Nalbandian e via dicendo, tennisti più completi, meno ancorati alla battuta. Il tennis, anche su erba, si è forzatamente adattato a condizioni più lente e che hanno cancellato l’attacco puro.

Come si è consumato tecnicamente “l’omicidio” di Wimbledon? Intanto tagliando di meno l’erba: 2 millimetri, da 6 a 8. Una scelta frutto di un calcolo matematico, che abbinato a palline con un diametro più grande di circa l’8% ha reso le condizioni molto più lente. Le palle più pesanti sono ideali per essere liftate, violentate col massimo della potenza, diventando più complesse da toccare delicatamente a rete. Inoltre dal 2001 (per bocca di Eddie Seaward, allora responsabile dei campi di Wimbledon) l’erba è stata modificata. La segale, ingrediente presente nella miscela erbosa, ha preso il sopravvento sulla festuca (prima predominante), fino a costituirne la totalità. Questo ha cambiato radicalmente le condizioni di gioco, poiché la segale è assai più tosta e cresce più dritta e meno fitta, generando un manto erboso che fa rimbalzare la pallina più alta e più lenta. Abbinata ad un suolo reso più duro e compatto, che restituisce molto di più il rimbalzo, ecco lo scacco matto al gioco classico d’attacco. Tanto che Tim Henman nel 2001 sussurrò disgustato “Ma che è successo? Questo Wimbledon è il torneo più lento a cui ho preso parte quest’anno!?!”. Proprio la splendida finale del 2001 vinta a sorpresa da “Cavallo Pazzo” Ivanisevic su Rafter è stata l’ultima vera finale “d’attacco” della storia, insieme a quella tra Federer e Philippoussis del 2003. Poi anche a Wimbledon il tennis è diventato via via sempre più uguale a se stesso, dominato da scambi da fondo. Anche sui prati. Così che il “beneficiato” di questo Wimbledon appiattito è stato Nadal, che un paio di lustri prima col suo tennis energetico ma del tutto inadatto all’erba avrebbe durato fatica a sopravvivere alla prima settimana. E non lo dice un cronista, ma gente come Courier, Muster, Kafelnikov, Stich, Santana e compagnia. Federer rispetto alle sue prime scorribande sull’erba afferma di non sentirsela più di correre a rete con frequenza, perché è troppo rischioso toccare la palla, certo di ricevere in faccia una pallata avvelenata di spin, quasi incontrollabile di volo. E pensare che quando i pionieri del tennis idearono questo passatempo lo concepirono come gioco per esaltare destrezza e fantasia, non certo una rissa agonistica… Nonostante tutto Wimbledon riesce ancora oggi a distinguersi, poiché l’erba per fortuna esalta chi ha talento tecnico, chi attacca e sfrutta tutto il campo con variazioni e soluzioni offensive, anche se molto meno di un tempo; ma saranno sempre di meno i match ricchi di situazioni d’attacco e trovate tecniche. Se non si tornerà indietro su erba e palle, premiando di più la tecnica sulla costanza di prestazione, sarà difficile rivivere match come l’incredibile finale dei Championships del 1980 tra Borg a McEnroe, che grazie ad un tennis sublime a tutto campo e l’incredibile tiebreak del quarto set è diventato l’icona suprema del tennis di tutti i tempi. Ovviamente, a Wimbledon.

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