(Davide Scala e il Prof. Salvatore Buzzelli)
di Gianfilippo Maiga
Davide Scala porta con sé il rimpianto di un’incompiuta: una carriera che non ha prodotto i frutti sperati. Questa volta però non c’entrano gravi infortuni, o una testa poco “da tennis” o dei limiti tecnici evidenti. Entra in gioco uno di quegli aspetti imponderabili che costituiscono una delle tante insidie del tennis, l’aver perso senza una ragione apparente il filo del proprio gioco, che aveva dato più prove di essere di prima qualità. Il risultato è che abbiamo un bravo allenatore in più, merce rara, e una mina vagante sui campi di tennis, che siano quelli degli open o quelli della serie A, che a 40 anni è meglio non incrociare.
In un’intervista a Davide Scala è d’obbligo partire dalla pagina in apparenza più gloriosa della sua carriera: l’accesso al terzo turno del torneo di Roma, (venendo dalle qualificazioni) nel 1997, dopo aver battuto un certo Tim Henman. Quel match vedeva Henman al rientro dopo un’operazione al gomito. Molti avevano attribuito a questo fatto la sua sconfitta, ma Henman dopo il primo turno (vittorioso) aveva dichiarato di non risentirne minimamente. Tu cosa ricordi di quella partita e del tuo avversario? Umanamente com’era Henman: simpatico o afflitto dalla tipica alterigia britannica?
I giocatori, in campo, conoscono la verità: in quell’occasione il match è stato vero e non condizionato da malesseri di alcun genere, come ha riconosciuto molto correttamente lo stesso Henman. A riprova di quanto dico, Henman, che di lì a poco avrebbe raggiunto i quarti a Wimbledon, veniva da un match vittorioso contro lo spagnolo Carretero: non certo un signor nessuno, dato che era reduce dalla vittoria al torneo di Amburgo. Inoltre, colgo l’occasione per dire che allora molto si parlò dell’infortunio da cui era reduce Henman, che però si era presentato al torneo guarito e con un po’ di allenamento alle spalle, e pochissimo del fatto che io venivo a mia volta da venti giorni di inattività totale per infortunio, trascorsi alla Isokinetik di Bologna a fare fisioterapia e senza passare un secondo con la racchetta in mano. Anzi, ricordo che avevo giocato Roma così, per provare, senza alcuna preparazione, iscrivendomi all’ultimo alle qualificazioni: a parte Henman, nel primo turno di quali avevo esordito battendo Kiefer, un giocatore allora emergente, ma già molto forte, (era nei primi cento), al punto da raggiungerequell’anno i quarti a Wimbledon. Il torneo di Roma era iniziato all’insegna dell’infortunio e nello stesso segno è finito: mi sono infatti nuovamente lesionato contro Draper nell’incontro successivo al match con Henman, e questo ulteriore incidente mi è costato la partecipazione al Roland Garros quell’anno. Quanto ad Henman, ho già fatto cenno alla sua correttezza in quell’occasione, nel riconoscere la mia vittoria. Non lo conoscevo bene come invece mi capitava con altri giocatori più “latini” (spagnoli in primis), ma sembrava molto tipicamente inglese: signorile e riservato, molto amato dai suoi connazionali.
Tutti pensano all’incontro con Henman come al momento più alto da parte tua. In realtà, guardando tra le pieghe dei tuoi incontri, si può notare come nelle quali dello stesso torneo avevi regolato Kiefer con un eloquente 6/4 6/0, sempre nel `97 nel torneo di Merano avevi infilato una serie di vittorie contro Gaudenzi, Camporese e Sanguinetti , a Washington avevi battuto Patrick Mc Enroe, il fratello” meno buono”, ma certamente un signor giocatore e Kulti a Rotterdam nel `98. Al Roland Garros del `98, 1 turno di quali, avevi perso di misura al terzo contro un tal Safin, allora diciottenne, ma capace di issarsi agli ottavi, (sconfitta al quinto con Pioline), dopo aver fatto fuori Agassi e Kuerten, tanto per gradire. Più di una prestazione di livello e più di un successo di spessore, insomma: come giudichi allora retrospettivamente la tua carriera, con un best ranking di 113?
Molto chiaramente dico che nutro più di un rimpianto. Posso asserire oggi che il mio tennis valeva più della mia classifica e che avrei potuto serenamente stazionare nei top 50. Quanto dico non è per presunzione, ma partendo dall’ osservazione che allora me la giocavo davvero con tutti. Al limite, ricercavo l’incontro con giocatori di prima fascia, proprio perché mi sentivo competitivo e ho avuto occasione di incrociare la racchetta con più di uno di loro. Nel 1997 avevo raggiunto un soddisfacente grado di maturità: ad un tennis piuttosto completo e, se mi si consente, facile avevo aggiunto finalmente, grazie al mio allenatore Coppo, un adeguata forza mentale, quella che faceva la differenza a quei livelli. Nel biennio 1997-1998, oltre ai risultati sopra indicati, vorrei ricordare il torneo di Bournemouth (’97) in cui, per non essermi iscritto in tempo, ero partito dalle qualificazioni, e in cui avevo battuto Delaitre e il norvegese Ruud, per poi perdere da Moya, che aveva vinto il torneo. A Bologna, dove allora si giocava un ATP, ebbi la meglio sull’argentino Gumy, prima di perdere al terzo con Lapentti. A Rotterdam , oltre che Kulti, avevo battuto l’ottimo olandese Van Lottum e poi mi ero inchinato a Rafter, n.2 del mondo, per 6-4 6-4. Non inganni il punteggio in questo caso, però. Rafter è uno dei giocatori che in carriera mi hanno maggiormente impressionato. Non ho mai visto nessuno che, pur non sapendo colpire la palla a fondocampo, fosse in grado poi di sorprenderti con improvvise sortite a rete, dove giocava da maestro, controllando l’incontro. In quell’occasione non ebbi mai la sensazione di poter ribaltare il risultato e portare a casa il match, nonostante gli rimanessi vicino nel punteggio. Ero più a mio agio sulla terra che sul sintetico: la mia vittoria di Washington è quindi un buon risultato, perché Patrick Mc Enroe era un eccellente giocatore. C`è poi da ricordare un risvolto divertente di quel match serale. Il campo era a stretto contatto con gli spettatori, che facevano un fracasso d’inferno. Ho poi scoperto anche perché: molti spettatori, in modo del tutto legale, avevano scommesso e il tifo era particolarmente caloroso nel momento in cui la mia vittoria si è profilata, perché le mie quote erano “interessanti”. Uno spettatore venne a fine match a stringermi la mano e a congratularsi perché, grazie a me, aveva a suo dire vinto una bella somma! Su Merano vorrei spendere qualche parola in più. In quel torneo la sorte ci aveva giocato un tiro davvero mancino. Ho incontrato infatti, uno via l’altro, l’intera squadra di Coppa Davis, nell’imminenza delle convocazioni per l’importante incontro con la Spagna e io ero in lizza per un posto in squadra. In particolare, ero (e lo sono tuttora, intendiamoci), amico di Gaudenzi, mio corregionale. Quando non era in Austria, dove di norma risiedeva , (dato che lavorava con Muster e il coach Leitgeb), eravamo spesso partners in allenamento. Così fu anche tutta la settimana prima di Merano, per poi scoprire che eravamo l’uno contro l’altro in tabellone. Sino ad allora, su 4 incontri con Andrea ne avevo vinti 3 e potevo ben essere considerato la sua bestia nera: quella volta sembrava che il match dovesse andare secondo un copione per una volta diverso, con il sottoscritto vicinissimo alla sconfitta (più o meno 3-5 40-15 e servizio Gaudenzi), quando miracolosamente sono riuscito a ribaltare le sorti dell’incontro, vincendo 7-6 al terzo. Gaudenzi si arrabbiò talmente che se ne andò senza giocare il doppio, che avrebbe dovuto disputare con il tedesco Göllner. Sullo slancio, la stessa sorte subirono Camporese e Sanguinetti. Avrei perso solo (al terzo) con Santopadre, ma ero snervato dai confronti precedenti, che erano stati ricchi di tensione per le implicazioni di cui ho parlato. Purtroppo la buona prova non mi è valsa ugualmente la convocazione per l’incontro con la Spagna. Non venni chiamato perché la scelta fu di giocare sul veloce e io ero decisamente meglio sulla terra. La decisione di giocare sul rapido contro una banda di noti terraioli come gli spagnoli si è come si sa rivelata giusta, devo ammettere, vista la perentoria vittoria azzurra. Fatta questa lunga premessa, dopo questo bel periodo mi sono “involuto”. Paradossalmente la nuova arma di cui mi ero dotato, una forza mentale e di concentrazione che non avevo ad inizio carriera, è diventato un fardello per il mio gioco, i miei colpi. Avevo guadagnato in solidità e perso in brillantezza, ma allora non me ne rendevo conto e nessuno da fuori me lo ha fatto notare: raddoppiavo allora i miei sforzi di concentrazione, ma non ritrovavo il mio gioco. A questo si devono aggiungere vari infortuni, che mi hanno tolto ritmo e frenato nella strada, difficile e lastricata per un tennista, che porta a ritrovare se stessi.
Come ci puoi descrivere il tennis a livello internazionale e in Italia in quel periodo?
A rischio di essere irriverente dico che il livello del tennis di punta dei miei tempi era superiore all’attuale. Oggi, quando inizia un torneo del Grande Slam, si sa chi vincerà: uno dei top 4. Sorprese sono molto difficili, per non dire impensabili. Per carità: la preparazione fisica attuale rende il tennis uno sport durissimo a tutti i livelli, ma per quanto riguarda il tennis di assoluta eccellenza il numero di fuoriclasse che giravano sul circuito quando giocavo io oggi non c`è. Fenomeni come quello di Roddick, che è stato numero 1 al mondo pur con evidenti limiti tecnici, erano difficili da immaginare, perché troppa era la concorrenza di qualità. Le personalità forti non si contavano, o i giocatori con doti molto al di sopra della media e in grado di vincere un torneo del Grande Slam. Di Rafter ho già parlato. Ricordo di aver avuto occasione a Rotterdam, auspice Sergio Palmieri, di allenarmi con Mc Enroe e Noah. Tecnicamente, almeno per quanto ho potuto constatare, fra i due c’era un abisso. Noah a momenti sembrava non sapesse giocare a tennis, ma era d’altro canto un grandissimo ginnasta, un acrobata e un forzuto capace di spezzare le catene con il petto; Mc Enroe un artista, il tipico capace di non giocare per un mese a tennis e poi ricominciare come se nulla fosse, ma con un animo da fighter. Durante il nostro palleggio sbagliò una stop volley e spaccò la racchetta per la rabbia. Spuntarla con questi mostri era estremamente difficile. Con Safin ce l’avevo quasi fatta, al Roland Garros’98, dove arrivò agli ottavi, partendo dalle quali. Primo turno di qualificazioni con lui: ero sopra 3-2 al terzo e 15-40 per me sul suo servizio, ma vinse lui 6-4. Si può dire che quell’incontro fu il suo trampolino e di lì non si fermo più. Non lo dico io: un po’ me lo ha detto lui stesso. Dopo quell’incontro la nostra conoscenza e la stima crebbe. Eravamo amici: faceva parte del novero dei “latini”, pur non essendolo, con cui simpatizzavo. Qualche anno fa, con me già ritirato dall’attività agonistica internazionale, venne a Bologna a farsi curare all’Isokinetik, istituto fisioterapico peraltro a me ben noto. Chiese di me per poter “fare due palle” e ci rincontrammo. Ebbene, fui lui a dirmi, (io non avrei mai osato, anzi pensavo proprio che non se lo ricordasse): ti ricordi di quel nostro incontro al Roland Garros, quando hai quasi vinto? Credo davvero che il livello di allora non sia ripetibile oggi. Federer è un fuoriclasse assoluto, un maestro e sa giocare su tutte le superfici. Eppure io penso che, terra a parte, Sampras, per fare un nome, sulle altre superfici gli fosse superiore, (e peraltro sulla terra Sampras, che lì passa per un incapace, ha vinto Roma).
Oggi operi come coach. Dicci come sei arrivato alla decisione di allenare e come interpreti questa attività.
In realtà mi è più facile dire come sono arrivato alla decisione di smettere: è stata la nascita di un figlio che mi ha indotto, come si dice, ad appendere la racchetta (del professionista itinerante) al fatidico chiodo. Non ritrovavo il filo del mio gioco e dovevo a questo punto assumermi le responsabilità di questa scelta. Mi ha aiutato anche la circostanza, un po’ casuale, di essere vicino a Enrico Burzi, bolognese come me. Allora 2.3, sembrava indeciso sul da farsi, diviso fra un’attività “domestica” e una internazionale. Avevo voglia di mettere a disposizione le mie competenze e di trarre profitto delle mie esperienze e credo che l’operazione sia stata di successo, visto che Enrico ha intrapreso la carriera tardissimo ( a 24 anni) ed in poco tempo ha raggiunto un ranking al di sopra della 300esima posizione. Oggi, a 31 anni ha raggiunto il suo best ranking (250) ed è ancora pieno di voglia di crescere: porta forse con sé qualche rimpianto, non solo perché ha cominciato tardi, ma anche perché in sette anni gli infortuni lo hanno veramente perseguitato, impedendogli di fatto per molte stagioni di effettuare un’adeguata preparazione. A mia volta, nel seguirlo, ho dovuto limitare le occasioni di accompagnamento per la necessità di disporre di un reddito stabile e adeguato al mantenimento di una famiglia. Sto comunque cercando di creare una struttura, che vedo crescere con grande soddisfazione. Opero al Centro Pallavicini, di Bologna, che è un centro sportivo e non un circolo, ha 3 campi e una grande palestra. Lavoro in modo scientifico e integrato, e insisto su questo aspetto, con il preparatore atletico, il noto prof. Buzzelli (inventore del Senso Buzz, n.d.r.) , volendo con questo significare che gli esercizi che si fanno fuori dal campo sono immediatamente funzionali al lavoro che si fa in campo, come in fondo se si fosse sempre sul campo stesso. Questo modo di lavorare paga, e non solo in termini di risultati tennistici: ora seguiamo Manuel Righi, un diciottenne promettente, che in pochi mesi da 2.7 ha raggiunto i punti di 2.4, una ragazza under 16 e un ragazzo under 14, ma la voce si sta diffondendo e periodicamente vengono da noi ragazzi e ragazze da altre città d’Italia per periodi di stage, incuriositi da questo approccio.
Cosa pensi del movimento tennistico italiano?quali pensi siano le differenze fra l’allenarsi in Italia per un professionista e, per esempio, altre realtà oggi conclamate, come la Spagna, dove molti tennisti italiani si recano?
In generale in Italia le competenze non sono così diffuse e sfruttate. Anzi, se devo dire, c`è un po’ di confusione. In molti ci fregiamo dello stesso titolo di maestro, ma con esperienze e backgrounds ben diversi, anche se il diploma è lo stesso. E l’esperienza di livello non basta se no si rischia di inventarsi un mestiere. Occorre studiare, conoscere, per es., i principi della biomeccanica, proprio perché il lavoro atletico possa essere funzionale al tennis. E poi occorre un metodo, che sia patrimonio di una scuola tennistica e non il colpo di genio del singolo. Ecco perché non ci sono due italiani che giocano nello stesso modo, mentre gli spagnoli hanno un’impronta chiarissima. Per parte mia, nella speranza e nell’attesa che ciò avvenga , cerco di essere rigoroso nel coniugare qualità, scienza e intensità, tre elementi non derogabili e evito come la peste l’improvvisazione.
Sei sempre attivo tennisticamente? È passione, voglia di essere competitivo o desiderio di mantenere la forma fisica?
Oggi, se possibile, gioco meglio di una volta, specie perché ora sono libero dai miei fantasmi. Tutto quadra: lucidità tattica e aspetti tecnici. Peccato che l’anagrafe sia spietata. Ma non poi così tanto. Se si pensa che non posso allenarmi molto, ma riesco ancora a quarant’anni a disputare competitivamente una serie A (con il Rovereto) e qualche open (recentemente ho battuto in una finale Marrai, 25 anni e 300 al mondo), non mi posso proprio lamentare….
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Senz’altro, in primis, quello di essere un coach itinerante. Enrico vorrebbe avermi sempre al suo fianco e io ci andrei molto volentieri. Poiché oggi questo mi è solo parzialmente possibile, il mio sogno è che la reputazione della mia struttura continui a diffondersi, così come sta già accadendo, e cresca al punto di permettermi di fondare una mia Accademia, in grado di aiutare i giovani a prepararsi e ad affrontare il professionismo
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