di Luca Brancher
Non si tratta di una recensione sul b-movie degli anni ’80 con, tra gli altri, Brad Pitt, bensì di un piccolo tributo alla rinascita tennistica di Brian Baker
Sette anni fa, dopo aver giocato e vinto una partita contro Novak Djokovic, Brian Baker ebbe la sensazione, vivida e tangibile, di essere un giocatore vero. O questo, a posteriori, era il pensiero che gli si era insinuato nella sua testa, intrisa, e come non poteva esserlo, di pensieri negativi e ricchi di rimpianti. Era evidente fosse così, d’altronde, visto che quell’avversario battuto, in quella sfida di qualificazione di un torneo australiano, nel frattempo era divenuto un mammasantissima del circuito mondiale – non al livello robotico attuale, però – mentre lui, Brian, si era invece dovuto accontentare di un ruolo all’interno della squadra-allenatori dell’Università di Bellemont, Nashville, sua città natale. E quanta fatica nell’accendere la tv e sintonizzarsi su qualche canale televisivo a rimirare le fasi salienti di un torneo importante, e puntare l’occhio su quelle platee, calcate per poco tempo, ma sufficiente a creare un senso di vuoto interiore. “E pensare che col serbo ci ho pure giocato e vinto una sfida in cui regalammo spettacolo col rovescio”, andava ripetendo. Non fu l’unica sfida che Brian ebbe modo di effettuare contro l’attuale primo giocatore al mondo, anche se l’altra il ragazzo del Tennessee faticava a menzionarla: l’anno era sempre il 2005, la località Roehampton, dove annualmente si tengono le qualificazioni allo Slam più fascinoso che ci sia, Wimbledon. In effetti non si trattò nemmeno di una vera e propria partita: l’incontro durò due giochi, con la situazione di parità non ancora sciolta, e fu forzatamente interrotto a causa di un infortunio che mise fuori gioco il nostro eroe. Perché se prima era una sensazione ex-post, quella riferita alla vittoria su Djokovic, quella dopo il ritiro, in realtà, era una vera e propria certezza: il suo fisico, infatti, non gli consentiva di competere a livello pro’.
Infatti, mentre esercitava a Bellemont, Brian Baker viveva uno dei tanti periodi post-operatori della sua giovane vita: da quella primavera del 2005, in effetti erano stati diversi i momenti in cui l’atleta statunitense si era dovuto servire del servizio sanitario a stelle e strisce. In principio fu l’anca, e da questo primo infortunio ne scaturirono diversi: perché con l’intenzione di rinforzare la parte alta del corpo, nel tentativo di preservare le anche, Brian sollecitò troppo il gomito destro, per il quale fu necessaria una nuova operazione. E nonostante tutto questo, la sensibilità alla parte mediana del corpo lo portò ad affrontare un altro paio d’interventi, in un continuo tira e molla che non gli dava mai un attimo di tregua. Insomma, se si escludono qualche mese di infruttuosa attività nella seconda parte del 2005 e un paio di tornei, fuochi fatui, nell’autunno di due anni dopo, Brian Baker era diventato un ricordo nel circuito, tanto da solleticare la fantasia degli appassionati statunitensi, che arrivarono a definirlo, con la consueta forzatura che li contraddistingue in questo ambito, il più grande “what if” della storia del tennis americano.
Questa sensazione, largamente diffusa nel web, non era campata per aria, bensì frutto delle ottime prestazioni che Baker, nelle poche stagioni passate sul circuito, fu in grado di fornire sul palcoscenico che per antonomasia definisce la stagione tennistica yankee: lo U.S. Open. Un set tolto nell’ultimo anno da junior a Jurgen Melzer, un altro scippato al quarto giocatore al mondo, Carlos Moya, nell’edizione 2004 ed una netta affermazione su Gaston Gaudio – in quell’anno issatosi fino al Master di fine stagione – prima di uno stop in quattro frazioni al cospetto di Xavier Malisse nel 2005.
Nonostante tutto questo tempo intercorso, Brian non aveva mai messo una pietra sopra la sua carriera “Se otterrò dal mio fisico le risposte che sto cercando, allora mostrerò nuovamente le mie qualità su un campo da tennis”. Detto, fatto. Lo scorso mese di luglio, a Pittsburgh, capitale americana delle acciaierie, Brian Baker è tornare a frequentare le scene internazionali: con otto vittorie e 16 set incamerati a 0 centrò un successo che mancava nella sua bacheca dal challenger di Denver del 2004: una vita. Quanto infatti è stato il tempo che Baker ha trascorso lontano da questo tipo di competizioni. Il resto è storia recente, anzi contemporanea. Al terzo tentativo è giunta un’insperata finale nel challenger di Knoxville, ma eravamo in Tennessee, nell’università statale, per cui qualcosa del genere, se non prevedibile, era quantomeno auspicabile. Quello che davvero nessuno si poteva immaginare e quanto si è concretizzato nel giorno del suo 27esimo compleanno, il 30 aprile di quest’anno. Dopo altri due allori nei tornei futures statunitensi (Weston e Costa Mesa), eravamo all’indomani della perla challenger colta a Savannah, Georgia, località del suo quarto titolo dal rientro. Questa competizione è infatti una delle poche che si disputa su terra battuta nel Nord America, verde, come spesso sono i campi della costa sud-orientale degli U.S.A., ma pur sempre terra battuta. La USTA, alla luce di quanto accaduto, e soprattutto in virtù di quello che è stato il pregresso di Brian Baker, non ha esitato altrimenti ed ha accreditato al ragazzo di Nashville la wild card che è in loro possesso per il main draw del Roland Garros.
In effetti Brian, dopo l’ultima manifestazione disputata, è tornato molto vicino al suo best ranking, vecchio di quasi 8 anni (214 vs 172), e soprattutto ha dimostrato che quando il suo fisico gliene ha dato l’occasione aveva davvero tutte le carte in regola per stupire. E per quanto sembrasse parte del passato, Baker ha trovato il modo di regalarsi un insperato esordio al Rolang Garros, evidente segnale di come siano bastati 13 tornei per far tornare tollerabile quell’aria che gli erano divenuta irrespirabile anche solo al ricordo. E quel che è certo è che non è ancora finita.
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