di Sergio Pastena
Battere gli Stati Uniti a domicilio? Erano autorizzati solo gli australiani. I numeri parlavano chiaro: fino al 1975 solo due nazioni, escludendo i “canguri”, avevano osato espugnare i campi americani. Nel 1903 c’erano riusciti i britannici, rappresentati dai fratelli Doherty, mentre nel 1927 riuscì nella storica impresa la Francia di Lacoste, Cochet e Borotra. Insomma, per fregare gli States a casa loro ci volevano dei giganti e giganti erano a quei tempi gli australiani, passati ben otto volte in trasferta. Peraltro gli Usa avevano reso il favore più volte nell’altro emisfero, era una rivalità ben nota. La partita di Davis contro il Messico, valida per il turno preliminare nordamericano e prevista dal 31 gennaio al 2 febbraio 1975, doveva quindi essere poco più di una formalità.
I precedenti dicevano 22 vittorie a 1 per gli americani e l’unica sconfitta era maturata in circostanze particolari. Era il 1962, periodo di grande depressione per il tennis a stelle e strisce, coinciso con l’ascesa in Messico di tale Rafael Osuna, giocatore fortissimo che riuscì a vincere gli Us Open. Osuna, oltre ad essere un singolarista eccellente, formava anche un doppio fenomenale con Antonio Palafox e inoltre si giocava a Città del Messico sulla terra rossa. Per i messicani fu durissima, ma ottennero lo storico successo al termine di autentiche maratone. In campo per gli Usa, in doppio, c’era anche Dennis Ralston, che nel 1975 era a bordo campo come capitano. Non c’era, a dire il vero, il clima della “vendetta”, visto che in quei tredici anni gli americani avevano battuto ben tre volte a domicilio i “cugini poveri”.
Figuriamoci cosa potevano dire i pronostici in vista di quella sfida. Si giocava al “Racquet Club” di Palm Springs, luogo bazzicato da emeriti sconosciuti come Marilyn Monroe e Cary Grant: deserto e volèe, rovesci e margarita, atleti e jet set a cento chilometri dal mare. E che tutto il vippaio venga pure ad assistere alla scontata vittoria americana! Il sole della California ricordava quello messicano poco distante, ma le similitudini con il 1962 finivano lì.
La superficie era il cemento, la forza delle squadre era impari. Sul fronte americano, in mancanza di Connors e Ashe, come singolaristi erano stati convocati Stan Smith e Roscoe Tanner. Il primo, spilungone di 1,93 con il vizio della discesa a rete e il dono di essere immune ai passanti, aveva già nel carniere Us Open e Wimbledon ed era numero nove al mondo. Tanner, invece, l’anno prima era arrivato in semifinale agli Us Open ed era il numero 14. Come doppista titolare e singolarista di riserva il numero 16 del ranking Bob Lutz, partner abituale di Stan Smith col quale vantava fino ad allora sei centri su sei. A completare la squadra Dick Stockton, altro doppista fortissimo e partner abituale di Van Dillen. Capitano, come detto, Dennis Ralston.
All’angolo messicano tre giocatori invece di quattro. Titolarissimo Raul Ramirez, allora numero 14 del mondo, personalità molto particolare. Baffo folto, ottimo sulla terra ma capace di disimpegnarsi anche sul duro, Ramirez aveva vinto fino a quel momento tre tornei. Tombeur de femmes e alquanto piacione, sposerà la stupenda Maritza Sayalero, miss Universo 1979. L’anno prima, sul cemento, aveva battuto sia Tanner che Smith: piccolo campanello d’allarme, ma non ci si faceva molto caso. Si giocava in casa e, per giunta, il giovane messicano era reduce da una stesa memorabile a Philadelphia ad opera di Vitas Gerulaitis. Inoltre il resto della squadra messicana era inesistente: come secondo singolarista era stato convocato il numero 267 del ranking, tale Roberto Chavez. In doppio giocava Vicente Zarazua, più che altro un portafortuna che due anni prima in coppia con Ramirez era stato “matato” agevolmente da Gorman e Van Dillen. Capitano Francisco “Pancho” Contreras. Insomma, l’unico dubbio era sul possibile punto della bandiera messicano.
Pronti via, in campo Stan Smith e Raul Ramirez. L’americano parte forte, chiude il primo set 6-3 e sugli spalti sono rilassati: neanche il 6-4 del messicano nel secondo set scuote gli animi. Il ragazzo, in fondo, due anni prima fece patire le pene dell’inferno a Solomon, è abituato a vendere cara la pelle. Ramirez, però, si attacca a Smith e non lo lascia: sembra caricato a molla, riprende tutto e attacca, piazza un 6-1 allucinante. L’americano reagisce, Raul tiene botta e si trascina fino al 6-6: non è previsto il tie-break. E’ a quel punto che Smith perde la battuta: 8-6, 1-0 per i messicani.
Sugli spalti c’è malumore, vorrà dire che per una giornata gliela daremo pari. Tanner scende in campo e sbriga la pratica Chavez con un rapido 6-1 6-3 6-3. Punto e a capo.
E’ qui che il capitano Dennis Ralston commette la più suprema delle cazzate: avendo visto uno Smith non al meglio decide di tenerlo in panchina per il doppio. Ancora oggi si fa, quando si vuole risparmiare un atleta, ma che senso ha se l’ultimo giorno dovrà affrontare un discreto tennista da Challenger? E’ come se in Gran Bretagna-Svizzera il ct degli elvetici escludesse Federer dal doppio per preservarlo in vista del match contro Ward. Ad ogni modo è il tecnico che decide e la coppia sarà Lutz-Stockton. Doppisti eccellenti, certo, ma Lutz aveva sempre fatto coppia fissa con Smith e Stockton giocava di solito con Van Dillen o Gottfried. Lo stesso Stockton aveva vinto a Maui con Tanner, però Roscoe era atteso da Ramirez e non potevano rischiarlo. Risultato: in campo due che non avevano mai giocato assieme e certe cose, nel tennis, pesano.
Nel primo set l’azzardo di Ralston sembra pagare: Lutz e Stockton non vanno a memoria ma chiudono 6-4, dall’altra parte Ramirez si danna per sopperire al 31enne Zarazua, prossimo al ritiro. Ancora una volta, però, il secondo set è di marca messicana e si chiude 6-3. Il terzo è combattutissimo, anche il “messicano scarso” sembra rinvigorito e si arriva al sei pari: gli americani riescono a breakkare e a chiudere 8-6. Sugli spalti tornano a rilassarsi, stavolta sarà finita davvero. Pancho Contreras, capitano della Davis messicana da quindici anni, mastica amaro: poteva essere l’occasione buona. Sembrano tutti rassegnati a un copione già noto, tranne i due in campo. 6-4 6-4. Due punteggi identici, due pugnalate alla squadra americana: il Messico è tornato avanti.
I brontolii del primo giorno sulle tribune diventano aperte lamentele: nel prezzo del biglietto era inclusa la vittoria americana, non sono ammesse variazioni sul tema. Dalle tribune le discussioni dilagano fino ai tavolini dei bar del Tennis Club. “Ma perché non ha messo Smith?” – “Ma vedrai, Tanner vince” – “Sì, ma quel Ramirez pare indiavolato” – “Ma ti pare che perdiamo in casa col Messico? E dai…”. Voci concitate, irate: era anche una questione politica, specie in California. Se prendevi la Route 111 in due ore arrivavi a Mexicali, che con Yuma e Tijuana era punto di ritrovo per gli immigrati irregolari, i border hopper. Vent’anni prima li avevano rimandati indietro in massa, l’aria era ancora tesa. Così ai tavoli era maretta mentre, a venti metri, i pochi fortunati braceros regolari sorridevano sotto i baffi mentre scaricavano casse di cibo e rum. Mancava un passo.
Il giorno dopo Ralston, per andare allo stadio, fece il giro lungo: prima passò dal collocamento.
Chi conosce la Davis sa che a volte il quarto match conta più del quinto, specie se una delle due squadre è avanti ma non ha un secondo singolarista valido. Tanner e Ramirez scesero in campo consapevoli di non essere sul 2-1 per il Messico, ma sul 2-2: era uno spareggio. L’americano era arrivato all’incontro fresco come una rosa, Ramirez aveva alle spalle nove set in due giorni. In campo la cosa non si vide: due set massacranti, uno per parte. 7-5 Ramirez, 9-7 Tanner con la pia illusione che finalmente il match avesse preso la strada americana. Illusione subito distrutta: 6-4 6-2 per “Mustacho” Ramirez, il Messico sbanca Palm Springs.
Riuscì a salvare la faccia, Stan Smith, con un atipico 6-2 9-7 6-1 a Chavez, oggi apprezzato dirigente tennistico messicano. Non ci riuscirono gli americani, che affidarono il team di Davis a Tony Trabert ma l’anno dopo le presero ancora, stavolta in Messico, sempre con Ramirez a fare un autentico “one man show” superando Connors nel match decisivo.
Mai più, però, i messicani han vinto negli Stati Uniti e non si prevedono eccezioni a breve. A Tijuana dal 1994 c’è un muro e sempre meno messicani riescono a passare. Il sogno americano è sempre più lontano, in tutti i sensi.
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