(Matteo Trevisan – Foto Nizegorodcew)
Premessa: La carriera di Matteo Trevisan è stata costellata di vittorie (soprattutto da junior) e di periodi molto negativi, dovuti a tanti infortuni e a qualche scelta sbagliata. In altri lidi del web ho letto attacchi molto poco educati nei confronti di Matteo che vorrei qui evitare, anche perché spesso si parla per sentito dire o per luoghi comuni, giudicando un ragazzo dalle enormi qualità tennistiche. Detto questo, le critiche costruttive e ben argomentate sono ovviamente ben accette, e lo stesso Trevisan sa benissimo che potranno esserci anche perché crediamo sia il primo a rendersi conto di aver comunque commesso degli errori, oltre alla già citata infinita sfortuna.
da Taverne, Gianfilippo Maiga
Ho incontrato Matteo al torneo di Taverne, dove oggi disputa i quarti di finale, provenendo dalle qualificazioni.
Ho trovato fuori dal campo un ragazzo un po’ disincantato, forse ferito, ma consapevole e per questo più forte dell’allegro toscanaccio un po’ goliardico che era quando frequentava Tirrenia. In campo ho visto invece lo stesso braccio meraviglioso, una padronanza tecnica e una completezza di bagaglio che gli conoscevo e che mi sembra di buon auspicio per quello che rimane un grande talento del nostro tennis e – se permettete – una promessa che ancora può essere mantenuta.
Matteo, facciamo il punto.
Oggi sono, mi sento, molto diverso dal ragazzo e dal giocatore che ero quando ho cominciato. Da giocatore del tutto istintivo, da ragazzo che giocava inconsapevolmente, come se non avesse nulla da perdere, oggi invece credo di essere diventato una persona pienamente consapevole di quello che faccio, che pensa molto in campo e fuori. Il passaggio da junior a giocatore non è stato indolore, ma le prove che ho dovuto sostenere, sia tennisticamente sia come persona – e che sinceramente sono state tante, troppe – mi hanno fatto maturare, mi hanno trasformato, anche se devo ricominciare da capo.
Cosa è successo?
Pronti via: nel 2008, a 19 anni, ho dovuto affrontare la mononucleosi, una brutta bestia che mi ha tenuto fermo un anno. L’anno successivo, forse perché la pressione era tanta e grande la voglia di bruciare le tappe, di non tradire le tante aspettative di chi mi circondava (e mi aiutava, come la Federazione), devo avere affrettato i tempi e i modi del rientro, o forse i carichi di lavoro. Fatto sta che ho subito 5-6 lesioni muscolari pesanti che di fatto mi hanno fatto perdere metà dell’anno: come si può capire, con queste circostanze era anche difficile trovare una condizione e una continuità di rendimento accettabili . Nel 2012 i miei pensieri erano assorbiti da vicende private che mi hanno causato molto dolore. Purtroppo a questa situazione si è aggiunto un nuovo problema fisico: il mio polso ha cominciato a farmi male e i dolori aumentavano fino a farsi insopportabili. Un’ecografia ha messo in evidenza una lesione parziale al tendine del polso. La prospettiva era quella di fare ricorso alla microchirurgia della mano, con tutte le incognite del caso, inclusa la possibilità che il tendine del polso perdesse parte della sua elasticità e allora ti saluto. Per fortuna a volte si incontra la Provvidenza: questa ha il nome del prof. Parra, che mi ha rimesso in sesto, cui non smetto mai di essere grato e cui colgo l’occasione per rivolgere un grandissimo grazie. Oggi, spero più sereno e più forte, sono qui, pronto a ricominciare su basi diverse e spero senza intoppi fisici.
Qual è stato il tuo percorso tennistico?
Lo sport è di casa da noi Trevisan. Mio papà ha giocato a calcio in serie B, (Verona, Modena) e la mamma è maestra di tennis. Io giocavo a calcio e a tennis, quando mio padre mi ha esortato a scegliere il secondo, perché riteneva l’ambiente del calcio pessimo. Sono stato per anni a Tirrenia e devo molto a questa esperienza: il mio pensiero va in particolare a Renzo Furlan, un numero uno per me. I guai sono cominciati con le responsabilità. A 19 anni sono stato affidato ad un allenatore esperto come Infantino, un privilegio, ne sono consapevole. I due anni in cui mi ha seguito sono stati purtroppo proprio quelli della mononucleosi e degli infortuni muscolari. Io non ero facile e ho probabilmente commesso degli errori, ma mi sia consentito un parziale alibi, oltre a quello degli infortuni: avevo 19 anni. Con Infantino non c’era la giusta chimica, quell’amalgama umano che devi avere quando una persona ti segue 24 ore su 24. Io forse non lo capivo, ma certo neppure lui sembrava capirmi: aveva tra l’altro la netta impressione che io non mi impegnassi, che non avessi voglia e temo trasmettesse questa sua convinzione nell’ambiente. Tra i 21 e i 23 anni mi ha seguito Fanucci a Firenze, vicino a casa mia. Tennisticamente questi sono stati anni in parte positivi, con il raggiungimento del mio best ranking (260 atp), ma anche con l’amara scoperta di cosa significhi la pressione dell’ambiente, il dubbio su te stesso, sul lavoro che stai facendo, il rendersi conto che non sei in una famiglia che ha i tuoi interessi come priorità, ma nel mondo normale, dove sei in fondo solo, perché ognuno lotta per la propria sopravvivenza e tutto questo, quando hai vent’anni, può essere molto duro da affrontare. Nel 2011 ho cominciato a conoscere sconfitte che mi erano nuove: quelle in incontri già vinti. Ricordo l’inizio di questa china discendente. Al Challenger di San Paolo contro Joao Sousa, brasiliano, avevo set e break sopra e ho perso al terzo. Stessa musica contro Skugor in Australia: set e break sopra e sconfitta al terzo. Di lì in poi ho cominciato a scivolare senza rialzarmi. Sono nati i dubbi su quello che stavo facendo e su come lo stavo facendo. Sono nati i dubbi sul grande sforzo economico che dovevo sostenere e se fossero soldi ben spesi. Il dubbio è il nemico numero uno del giocatore di tennis. Occorre scendere in campo sicuri del proprio lavoro e io non lo ero. Nel progetto Fanucci ero in condivisione con giocatori affermati, (Volandri, Ungur), ma ciononostante i costi che dovevo sostenere superavano l’appannaggio che ricevevo dalla Federazione. Quando questo è cessato, ho cambiato e sono tornato a Santa Croce sull’Arno, dall’allenatore che mi ha cresciuto, Catarsi. Mi finanzio con alcuni tornei a squadre, (vado anche in Austria e in Bundesliga) e in parte con l’aiuto di mia madre.
Quali sono le tue prospettive attuali? Sei convinto della scelta di continuare nella professione?
Mi sono rimesso in gioco e cerco di dimenticare di essere stato n.1 al mondo junior. Questa è la parte più difficile, perché anche se io non ci penso spesso, troppo spesso, me lo ricordano gli altri. Ora però sento di essere più sereno, anche e soprattutto perché ho di nuovo intorno le persone che mi vogliono bene e di cui mi fido. Anche se naturalmente sono fiducioso nei miei mezzi, non voglio pormi dei traguardi specifici: è da quando ho 16 anni che sento dire dove devo arrivare, quali sono le mete che devo raggiungere. Certo, se a 27-28 anni fossi ancora un giocatore da Futures smetterei. Voglio però vivere la mia carriera con impegno, con ambizione, ma serenamente. Il mio rapporto con il tennis non è quello gioioso e puro di quando avevo 18 anni, ma questa vita mi piace e il mio mestiere mi appassiona. Oltretutto in questo periodo, in cui il mio allenatore non può seguirmi, devo dire che ho scoperto di girare volentieri da solo, un po’ assaporo la mia autonomia. Certo le cicatrici che questo ambiente mi ha generato, le porto sempre con me. Sapete che vi dico? Anche se amo il tennis, se rinasco gioco a calcio tutta la vita!
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