Grigor Dimitrov cambia pelle, ancora. Dopo la separazione col chiacchierato Roger Rasheed, il ventiquattrenne di Haskovo ha sciolto i dubbi circa il suo successore, abbracciando in una suggestiva unione Franco Davin, ormai ex coach storico di Juan Martin Del Potro.
Negli ultimi giorni la notizia veleggiava nell’aria per molteplici motivi. Da una parte c’è stato l’annuncio della separazione tra l’argentino e la torre di Tandil, dall’altra l’inevitabile influenza del Team 8, compagnia di management cui fanno parte sia Del Potro che Dimitrov oltre a Federer, ha fatto il resto.
Non dev’essere semplice vestire i panni di Dimitrov. Il talento bulgaro in una manciata d’anni di carriera è passato dall’essere additato quale futuro numero uno del tennis mondiale, fagocitatore di Slam oltre ad erede designato di Federer cui stilisticamente ricorda molto, all’essere ormai giudicato quasi all’unanimità un misero flop, una promessa che resterà tale, un giocatore tanto bello quanto futile. Grisha, nonostante le appena ventiquattro candeline sull’ultima torta, pare aver già vissuto più carriere. Ha avuto il coraggio di cambiare in un’avventura cominciata in un paesino al sud della Bulgaria, passando per la Svezia, fino alla scintillante Los Angeles, base condivisa con Maria Sharapova, per poi virare su Miami.
Dopo aver lasciato (per molti colpevolmente) l’ottima GTG Academy di Norman, Dimitrov scelse Roger Rasheed in un punto cruciale della carriera. Il tecnico australiano ha instillato muscoli e resistenza in un fisico che ne aveva enorme bisogno, togliendo tuttavia brillantezza a chi il genio ce l’ha nel sangue ed allontanando eccessivamente dalla baseline chi invece deve adottare per natura un atteggiamento più offensivo possibile. Sono grandinate accuse in capo al coach australiano, tacciato d’aver in qualche modo sopito l’ardente talento di Dimitrov. Affermazione, se vogliamo, vera a metà. Il bulgaro, infatti, aveva bisogno di costruire un’armatura fisica all’altezza del tennis moderno, aveva bisogno di imparare a difendere oltreché offendere senza però indugiare troppo nella fase difensiva come spesso è accaduto. Quindi Rasheed in qualche modo può dirsi necessario alla crescita di Dimitrov, ma forse la permanenza dell’aussie sulla panchina bulgara è durata troppo.
Ora il presente risponde al nome di Franco Davin, mentore più che coach di Del Potro, che portò il suo ragazzo a stabilirsi abitualmente tra i primi giocatori del globo oltreché vincere una prova dello Slam in un’era in cui tale impresa pareva preclusa a chi avesse un nome diverso dalla trinità Federer-Nadal-Djokovic. Da qualche stagione, la malasuerte pare aver trovato casa a Tandil, divertendosi a fermare e rifermare Palito, ingabbiato tra un infortunio e l’altro e mai realmente ripreso. Se per Dimitrov la scelta di Davin ricorda molto da vicino un’ultima spiaggia, per Davin seguire Dimitrov pare essere una decisione tanto rischiosa quanto affascinante.
Dopo un anno di oblio in cui il talento di Haskovo si è pericolosamente allontanato dalla top ten, raccogliendo sostanzialmente solo insuccessi, il ventiquattrenne bulgaro sta ricomponendo i pezzi del suo essere uomo e giocatore. Ha interrotto la (troppo) chiacchierata relazione con Maria Sharapova, ha lasciato andare Rasheed assumendo Davin, ha finalmente scelto dopo migliaia di test il suo nuovo attrezzo prodotto da Wilson sotto le sue minuziose indicazioni. Ora Dimitrov non ha più scuse. Ora Dimitrov deve dimostrare cos’è. La stagione 2016 darà finalmente risposte univoche ed inequivocabili.
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