Una bella esperienza in un college Usa, la vita da tennista e una laurea in giornalismo in mano. La triestina Paola Cigui, ex top 400, ci racconta la sua epoca pro, la sua esperienza americana, dove è stata anche premiata in due occasioni come Player of the Year nella sua categoria, e i suoi progetti per il futuro, fra tennis, studio e lavoro.
Ciao Paola, come va? Come è andato il tuo allenamento di stamattina?
Bene, bene, sono stata in Slovenia perché lì c’è un ragazzo con il quale mi alleno ogni venerdì mattina per un paio d’ore. Qua a Trieste non è facile trovare ragazze con cui giocare, quindi i migliori allenamenti li faccio in Slovenia ultimamente.
Ma continui a giocare con regolarità, tutti i giorni?
Beh, non proprio tutti i giorni, ma sì con una certa regolarità, perché ad aprile inizio la serie A ad (con il Casale Monferrato, in A2, NdR) e gioco a tennis 3 o 4 volte a settimana. Seguo comunque un programma e cerco di fare attività ogni giorno, integrando con palestra o corsa. Poi faccio anche qualche torneo Open giusto per mantenermi in forma, e ho anche le lezioni di tennis come maestra.
Quindi l’attività internazionale è un capitolo che consideri chiuso, o si può riaprire?
È un capitolo…. chiuso.
Ci vuoi riassumere la tua tappa come professionista?
Praticamente nell’ultimo anno delle superiori ho iniziato l’attività pro, e nel 2008 sono arrivata da zero intorno al nº 600 del mondo. Allora dopo la maturità classica mi sono presa un anno sabbatico dedicandomi al 100% al tennis, e nel 2009 ho raggiunto il mio best ranking, il nº 406.
Non so se ti ricorderai, ma quando stavi muovendo i primi passi nel professionismo Spazio Tennis ti aveva intervistato.
Si si, me ne ricordo. Quando avevo fatto la semifinale a Reggio Calabria in un 25000 dollari, credo. Poi mi avevate fatto anche una mini intervista quando avevo vinto il 10000 di Bassano del Grappa. Tra l’altro è grazie al contatto con Alessandro Nizegorodcew che ho saputo del corso per giornalisti di tennis di Reggio Emilia.
Quindi mi dicevi che per un periodo ti sei dedicata al tennis al 100%.
Sì, poi però ero sempre intorno alle 400-500 ed ero abituata a giocare e studiare, così mi sono iscritta a Lettere a Trieste, e per circa un anno e mezzo sono riuscita a fare esami e tornei.
E l’idea di andare negli Usa come è nata?
In realtà da tempo, da quando avevo 18-19 anni, ricevevo mail con offerte dai college americani. Le leggevo e pensavo “figuarti se vado in America, è l’ultima cosa che farei!”.
Ahahah… quindi non era proprio in programma una trasferta americana.
Al contrario! Rimuovevo i messaggi, non rispondevo ai coach. Invece poi a 21 anni, cioè dopo due o tre anni in cui navigavo intorno al numero 500 del mondo, ho deciso, anche se un po’ tardi, di andare in America e ci sono rimasta quattro anni. Mi sono laureata a dicembre.
Ci racconti la tua esperienza? Innanzitutto dov’eri?
All’inizio sono andata in Arkansas, in prima divisione, poi ad Atlanta, in seconda. Perché come saprai nei college ci sono tre divisioni.
Sì sì, quindi funziona allo stesso modo per ragazzi e ragazze.
Sì, le regole sono le stesse. La Division I è naturalmente la più competitiva e ha regole piuttosto rigide. Prima di tutto in teoria devi entrare al massimo sei mesi dopo il diploma, poi non sono ammessi ex pro.
Lo sa bene Corrado degli Incerti Tocci, che dopo la sua esperienza di studente-giocatore al Virginia Tech e il Master in ingegneria aerospaziale, ha fondato la StAR, un’agenzia per aiutare i ragazzi che vogliono entrare in un college Usa.
Esatto, e io avevo 22 anni e un passato da pro, quindi sapevo che sarebbe stato molto difficile ottenere l’autorizzazione. Infatti non me l’hanno concessa e ho dovuto ripiegare sulla Division II, e sono andata in Georgia, ad Atlanta, alla Columbus State University, dove sono stata per tre anni e mezzo.
Allora non hai giocato in prima divisione solamente per questioni burocratiche.
Sì, anzi avrei potuto giocare da numero uno nella squadra del college in Arkansas.
Quindi in seconda può giocare un ex pro, e in prima no. Sembra quasi una contraddizione, no?
Si, infatti lo è, e paradossalmente proprio per questo si trovano più ex pro in seconda che in prima.
L’esperienza in generale come è stata?
Molto positiva, anche perché avevo comunque voglia di andar via per un po’. E poi ho rivissuto il tennis in modo completamente diverso. In Italia avevo il mio coach, ma mi trovavo spesso e volentieri sola, tutto è vissuto più a livello individuale, mentre negli Usa si fa un campionato a squadre che dura da gennaio a maggio. Eravamo in otto in squadra, sempre insieme, sempre in giro, viaggiando tra l’altro anche insieme alla squadra maschile.
Perché ogni college ha una squadra maschile e una squadra femminile?
Sì, solo che in Division I uno ci sono coach diversi e in Division II c’è uno stesso coach per ragazzi e ragazze, e stesse trasferte.
Fra tennis, studio e tornei, le giornate saranno molto piene, immagino.
Sì, infatti sono quattro anni che passano velocissimi. Non ho avuto neanche tempo di avere nostalgia! Giornate pienissime, a partire dalle otto del mattino. Lezioni, tennis ogni giorno dalle 13 alle 16, poi ancora lezioni il pomeriggo. Studio, un sacco di viaggi e tantissimo tennis. Guarda, ho giocato quasi di più a tennis in America che quando ero in Italia!
Ti hanno anche premiato, e per due anni consecutivi, vero?
Beh, sì, nel 2012 en el 2013 mi hanno dato il premio come Player of the year nella mia categoria.
Senti, forse è ignoranza mia, ma so di casi di ragazzi che dopo il college sono passati al professionismo e sono riusciti anche a raggiungere livelli alti, come per esempio Isner, ma non mi vengono in mente nomi di ragazze che hanno seguito lo stesso percorso…
È vero, e non saprei neanche dirti il perché. Molte ragazze oltretutto dopo i quattro anni di college, mollano.
Probabilmente si deve anche al fatto che le ragazze maturano prima, quindi molte a 17-18 anni sono già a livello pro. I ragazzi invece maturano sempre più tardi, e ormai è impensabile che un diciassettenne vinca uno Slam, come fece per esempio Becker a Wimbledon
Forse il motivo è proprio questo.
E che cosa hai studiato?
Giornalismo. I primi due anni in realtà sono sono comuni, quasi tipo le superiori in Italia, poi ci sono due anni di specializzazione nella tua disciplina. Il mio corso di laurea era molto orientato sul giornalismo scritto e comunque non incentrato solo sullo sport. Anzi, ho fatto il mio tirocinio nella redazione di una rivista di moda. Adesso vorrei fare un master, quindi altri due anni sempre negli Usa, e vorrei cercare di ottenere una borsa di studio come assistant coach, per cui oltre a studiare viaggerei e con la squadra e aiuterei ad allenare le ragazze.
Intanto stai facendo qualcosa come giornalista?
Io sono di Trieste, dove come sai c’è una minoranza linguistica slovena, e sono bilingue (per esempio ho fatto il liceo a Trieste ma in sloveno) e adesso sto collaborando con il giornale locale in lingua slovena, Primorski dnevnik (“Il quotidiano del litorale”, NdR).
Quindi non vorresti necessariamente lavorare nell’ambito del giornalismo sportivo.
No, non necessariamente, anche se ovviamente mi interessa, e per questo sono venuta a Reggio Emilia.
Tra l’altro Jacopo Lo Monaco ci ha raccontato qualche tempo fa la sua storia, che ha moltissime analogie con la tua.
Sì, infatti! Conosco la sua storia, e ha davvero tanti punti in comune con la mia!
Guarda, sia lui che tu siete un esempio bellissimo della grandezza dello sport. Non siete diventati dei numeri uno, ma attraverso lo sport avete incanalato la vostra vita in modo coerente, facendo oltrettutto interessantissime esperienze.
Certo, il tennis è uno sport che amiamo, e anche se non ce l’abbiamo fatta come professionisti ci ha aperto una strada nella vita. In particolare proprio grazie al college, anche se come ti dicevo non avrei mai pensato di fare questa esperienza. Mai dire mai nella vita!
Comunque… tu sei stata fra le prime 400 giocatrici del mondo, che non è da tutti! Hai qualche rimpianto?
Beh, ogni tanto penso che forse avrei potuto provarci ancora per un po’, ma comunque alla fine, se tornassi indietro, sceglierei comunque l’America.
Sono assolutamente d’accordo con te, secondo me è una soluzione ottima che consiglierei a qualsiasi giovane indeciso se provare o no a buttarsi nel mondo del professionismo. Tu sei tornata con una laurea e sai l’inglese alla perfezione, requisito indispensabile per fare il giornalista, in particolare sportivo.
Poi è un’ esperienza che ti fa crescere anche umanamente. Inoltre se si fa seguendo la tabella di marcia abituale finisci il college a 22-23 anni, ancora in tempo per provare a giocare come professionista. Ed è anche un modo per continuare a giocare ad alto livello, ma con una certa tranquillità, nel senso che non devi continuamente pensare a far quadrare il bilancio, oltretutto con il constante pericolo delle lesioni che ti possono bloccare.
Paola, è stato un vero piacere conoscerti e chiacchierare con te. Grazie per il tempo che ci hai dedicato e buona fortuna!
Grazie a te!
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