Una vittoria e una sconfitta. Come ogni caso di doping scoperto, la squalifica del recidivo Odesnik è una vittoria dello sport. Una vittoria piccola, però, in quella lotta al doping che già nella scelta semantica contiene l’ammissione di un nemico che non si può sconfiggere. Una vittoria, ed è questo l’aspetto più interessante, dell’USADA, l’agenzia anti-doping americana.
Proprio dall’USADA erano arrivate, nel giugno 2012, le prove che hanno portato alla squalifica di Lance Armstrong, raccolte in un dossier di 1000 pagine che contiene anche la testimonianza sotto giuramento di 26 persone, tra cui i suoi ex compagni di squadra Tyler Hamilton, George Hincapie e Floyd Landis. Quello che il direttore dell’USADA Travis Tygart ha definito “il più sofisticato sistema di doping che sia mai esistito nel mondo dello sport” ha scoperchiato le mancanze dell’Unione Ciclistica Internazionale che per anni aveva controllato, e coperto secondo il rapporto della Commissione indipendente per la riforma del ciclismo (CIRC), il texano. Dal 1992 al 2006, scrive il CIRC, quando l’UCI era sotto la presidenza dell’olandese Hein Verbruggen, la lotta al doping veniva vista come una caccia alle streghe pregiudizievole per il ciclismo. Sandro Donati, consulente della WADA lanciato da anni in una crociata contro il doping, ha sintetizzato i termini della questione su cui si gioca il futuro dello sport in un’intervista a Panorama del 2013. “I controlli non li può fare un organismo che è strettamente interessato alle performance e alla vendibilità del prodotto ciclismo. Chiaro che per l’Uci più elevato è lo spettacolo e il livello delle competizioni e più ci sono introiti”.
Sostituendo ciclismo e Uci con una disciplina qualsiasi e la relativa federazione internazionale, il risultato non cambia. Anche il più grave scandalo nella storia recente dell’atletica, che nel luglio 2013 ha adombrato con nuvole di dubbi la Giamaica fucina della velocità, scoppia grazie a controlli durante i campionati nazionali. Nel mese della caduta degli dei, finita con i controlli dei Nas nell’albergo di Lignano dove alloggiavano in vista del meeting allo stadio Teghil, vengono fermati Asafa Powell (ultimo primatista del mondo dei 100 prima di Usain Bolt), Sherone Simpson (argento olimpico in staffetta a Londra 2012 e individuale a Pechino 2008), Nesta Carter (medaglia d’oro nella staffetta 4×100 ai Giochi cinesi) e Veronica Campbell-Brown (tre ori olimpici tra Atene 2004 e Pechino 2008). Eppure la Jadco, l’agenzia antidoping giamaicana, costituita formalmente solo nel 2008, naviga “in problemi di ogni natura (pochi soldi, staff insufficiente, un solo prelevatore a tempo pieno, kit fuori uso, continue liti tra i membri)” si legge nell’articolo di Gaia Piccardi sul Corriere della Sera. E quando l’ex direttore generale della Jadco Renee Anne Shirley, confessa a Sports Illustrated e al Gleaner , il più vecchio quotidiano dell’isola, che da febbraio a luglio 2012 gli sprinter verdeoro sono stati testati fuori dalle gare una volta sola, la domanda di tutti sorge spontanea: e il Cio? E la Iaaf? Si è trattato solo di una enorme leggerezza, o dietro c’è qualcos’altro? Non sarà che c’entri qualcosa l’immenso valore di Usain Bolt come testimonial dell’atletica?
Nonostante tutte le ombre, comunque, rimangono due vicende esemplari, le inevitabili risposte, seppur tardive, a una situazione che ha superato la soglia di rischio. Ovvero, per riprendere ancora la definizione di Sandro Donati, il doping è così diffuso [che] viene meno anche il fattore del vantaggio egoistico e diventa semplicemente un modo di difendersi”: nessuno, confessava Armstrong a Oprah Winfrey, può affrontare il Tour de France senza aiuti più o meno illeciti. Superare questa soglia non conviene al sistema, e non può essere un caso che il sistema abbia risposto con questa energia solo quando la permanenza dello status quo avrebbe danneggiato il sistema stesso.
D’altra parte, affidare la politica dei controlli alle federazioni o ai comitati olimpici nazionali non è necessariamente la risposta giusta. Anzi. Il j’accuse dei carabinieri del Ros e dei Nas contro il Coni, che pure si è lodevolmente costituito parte civile nel processo nato dall’Operacion Puerto e ha chiesto che i campioni di sangue sequestrati al dottor Fuentes non siano distrutti dopo la sentenza definitiva, è lì a confermarlo. “Il sistema italiano è stato ridotto a una totale messinscena”, degradato a “rituale amichevole, privo di sanzioni”, si legge nelle 406 pagine dell’informativa agli atti dell’inchiesta di Bolzano sulla vicenda di Alex Schwazer. Nei sei mesi prima dei Giochi di Londra, proseguono i carabinieri, “non furono disposti controlli nei confronti della totalità o quasi dei propri atleti di punta candidati alle medaglie”. E nessun atleta è mai stato sospeso per aver mancato tre volte un test nel giro di 18 mesi o per non aver comunicato correttamente i propri spostamenti come prevede il codice della Wada. Eppure, si legge ancora nell’informativa, “tra il primo trimestre 2011 e il secondo trimestre 2012 – riportano nell’informativa – in Italia 38 atleti o atlete (appartenenti alla Fidal, ndr) avrebbero potuto essere squalificati avendo commesso almeno 3 mancate notifiche”. Invece hanno ricevuto solo gentili lettere di sollecito da parte del Coni.
Lo scorso 3 dicembre, poi, l’emittente tedesca ARD ha rivelato che il doping di Stato in Russia non è finito con gli anni ’80. Nel documentario dal titolo “Dossier doping: come la Russia fabbrica i propri campioni”, Yulia Stepanova e suo marito Vitaly Stepanov lanciano accuse pesanti e circostanziate alla Rusada (l’agenzia nazionale antidoping) per cui lo stesso Stepanov aveva lavorato dal 2008 al 2011. Nel documentario si sostiene che la maratoneta Liliya Shobukhova, che detiene la seconda miglior prestazione di sempre, avrebbe sborsato 450.000 euro a favore della federazione russa per coprire una precedente positività. E Maria Savinova, oro olimpico in carica degli 800, viene ripresa mentre ammetteva l’uso di oxandrolone, un anabolizzante. Ma le accuse coinvolgono nuotatori, ciclisti, fondisti, biathleti e sollevatori di peso.
Tutto, dunque, si riduce a un equazione a due incognite, che poi tanto incognite non solo: è una questione politica e di risorse, che non bastano mai. E nel tennis, che convive con l’insufficienza dei controlli ematici a sorpresa, i problemi si moltiplicano. Il grido d’allarme di Federer, “i test nel 2004 erano di più che nel 2013”, di Djokovic, la richiesta di una maggiore trasparenza nella comunicazione di ciascun controllo effettuato e del suo risultato, rimangono enunciazioni di principio, manifestazioni di buona volontà.
Perché il tennis si scontra con un sistema di controlli, dentro e fuori i tornei, finanziato da chi quei tornei li organizza (ATP, WTA, Grand Slam Committee), e non basta raddoppiare le risorse a disposizione se poi si è disposti a coprire dietro un ritiro di facciata la positività di Marin Cilic, scoperta solo perché un whistleblower ha parlato con i media croati. Prendere Odesnik, allora, non basta a ridare piena credibilità a questo sport. A pesare c’è soprattutto l’insufficienza delle risorse. Perché effettuare i controlli a sorpresa in Europa o in America può essere semplice, ma già dover mandare gli ispettori a testare chi si allena in Sudamerica o a Dubai, spedirli nelle accademie cinesi o nelle più lontane delle ex repubbliche sovietiche, comporta costi di viaggio, comporta in alcuni casi la necessità di visti d’ingresso, comporta la non indifferente spesa per la preservazione del campione e l’invio in uno dei laboratori accreditati. In uno sport che ha una stagione praticamente ininterrotta, con atleti in campo in tutti i continenti e i fusi orari, le principali agenzie nazionali fanno molto, ma gli standard, le possibilità dell’USADA non sono realisticamente replicabili nelle periferie del circuito ITF dove tanti vanno a cercar punti e qualche soldo per salvare la stagione anche in condizioni al limite dell’accettabile.
L’unica soluzione possibile per smettere di navigare nell’emergenza è creare un’agenzia terza, che per la sua attività non dipenda dagli stessi soggetti che regolano lo sport. Non è un principio rivoluzionario, è la necessità, tanto semplice a dirsi quanto difficile da realizzare, di separare i controllori dai controllati. Se non si spezza questo legame, continueremo ad accontentarci di piccole vittorie in una lotta che, così, si può solo perdere.
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