Sembrerà strano a dirsi, ma ci sono due versi di un famoso brano di Giorgio Gaber che sintetizzano in maniera quasi perfetta la storia di Timea Bacsinszky. Esiste una canzone del signor G che parla di tennis? Certo che no, perlomeno, non che io sappia. Ce n’è però una, molto bella, dedicata al vario sentire di una sinistra italiana che non c’è più, ma che quando c’era coinvolgeva i singoli e le comunità in tanti modi diversi. In quel brano, avrete ormai capito qual è, Gaber li racconta tutti quei modi e a un certo punto recita due versi particolarmente pregnanti di significato: “qualcuno era comunista perché gliel’avevano detto, qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto”.
Se è vero che Gaber non ha mai parlato di tennis nelle sue canzoni, è altrettanto verosimile pensare che Timea Bacsinszky non si sia mai interessata dell’organizzazione del proletariato ai fini della lotta di classe o che abbia passato l’adolescenza nella militanza di base, anche perché è nata da genitori ungheresi nel cuore della Svizzera, non esattamente uno dei centri più ferventi del pensiero socialista in Europa.
Perché questo legame allora? Perché sostituendo la parola “tennista” a “comunista” in quei due versi di Gaber la storia di Timea nel tennis si profila bene, la storia di una che è diventata tennista perché glielo avevano detto e che ha cominciato una seconda gioventù in questo sport riscoprendolo perché non le avevano detto tutto. Ma prima di parlare di questo tocca fare alcuni passi indietro.
Dell’inizio ovvero dell’essere tennista perché gliel’avevano detto.
Nata nel giugno del 1989 proprio mentre nel suo Paese di origine si avviava il pacifico estinguersi dell’esperienza comunista, Timea Bacsinszky, figlia di un allenatore professionista e di una dentista, è stata tra le più promettenti tenniste under-18 della sua generazione, anche non volendo considerare le due vittorie consecutive al prestigioso torneo under-14 organizzato storicamente da Lacoste ‘Le petits as’, parlano chiaro i diversi piazzamenti importanti nei tornei di categoria (semifinalista nel 2004 e nel 2005 all’Australian Open) e almeno un paio di vittorie contro una futura (vale a dire attuale) top-ten come Angelique Kerber. Non fu comunque una felice carriera per la svizzera che in una intervista al New York Times dello scorso maggio ha raccontato come non fosse esattamente un suo desiderio intraprendere la carriera tennistica da bambina:
“Visto che mio padre era il mio coach da bambina non potevo scegliere se giocare o non giocare. Lui voleva vivere il suo sogno per mio tramite e, purtroppo per me, giocavo piuttosto bene”.
Una storia insomma simile a quella ormai arcinota di Andre Agassi e di chissà quanti altri tennisti mai esplosi ad alti livelli e “vittime” di un talento latente capace di rovinarne l’infanzia. Quello che succede poi alla Bacsinszky è l’inizio di una carriera pro più che dignitosa ma non sfavillante, con buoni risultati e piazzamenti, vittorie importanti (una su Francesca Schiavone agli Open di Zurigo nel 2006 quando la svizzera fu fermata solo dalla futura campionessa del torneo Maria Sharapova), il suo primo (e attualmente unico) titolo WTA in carriera nel 2009 a Lussemburgo in finale su Sabine Lisicki e una classifica a ridosso delle prime 50 del mondo prima dello sfondamento di quella soglia e del raggiungimento del suo best ranking al numero 37 . Oggi, con il ricco bagaglio del senno di poi, la svizzera racconta la sua insoddisfazione per quel periodo nel quale era sì contenta di raggiungere dei discreti risultati, ma in fondo sapeva di non dare il meglio di sé proprio perché quella carriera non l’aveva scelta.
Tennista per inerzia, perché glielo avevano detto –appunto- fino a quel 2011 pietra angolare della sua vita fuori e dentro dai campi. Nell’aprile di quell’anno si rompe un piede, è costretta a sottoporsi a un intervento e ovviamente resta lontana dalle competizioni per vari mesi tra frustrazioni e obiettivi di miglioramento mai raggiunti, tenta un precoce rientro ai campionati nazionali svizzeri nel dicembre di quell’anno e non fa altro che peggiorare la situazione. Nel 2012 subisce un altro infortunio, stavolta alla spalla, e comincia un drammatico impaludamento nelle posizioni più basse della classifica wta e il conseguente accesso solo ai tornei minori. Per Timea, nonostante la chiusura del 2012 sia più che buona con il recupero di più di duecento posizioni nel ranking, le motivazioni già non fortissime spariscono del tutto. Nel 2013 gioca pigramente i primi mesi, ma poi decide di guardarsi attorno per ricavarsi una nuova opportunità di carriera e nel frattempo inizia ad andare da un analista. Così scopre (decide?) che il tennis non è la sua vera vocazione, che da ragazzina giocava per incapacità di imporsi e per evitare che i genitori potessero trovare nei suoi insuccessi ulteriori motivi per litigare e avvicinarsi al divorzio (poi avvenuto), che in fondo il suo desiderio era un altro:
“Sento che nella mia personalità un tratto importante è quanto mi piaccia prendermi cura degli altri. Cucinare per qualcuno è una forma di amore”.
Così a marzo del 2013, d’accordo con l’analista, decide di iniziare un tirocinio in una struttura turistica con il dichiarato scopo di potersi iscrivere a una scuola di gestione alberghiera dal settembre successivo e dare addio al tennis per cambiare vita definitivamente.
Di oggi ovvero dell’essere tennista perché non le avevano detto tutto.
È chiaro che se non fosse successo qualcosa nel frattempo, non staremmo parlando di Timea Bacsinszky sul circuito e al posto di questo articolo ce ne sarebbe uno della rubrica Missing di Luca Brancher. E se non stiamo raccontando della promessa juniores e buona giocatrice fino all’infortunio finita a fare l’aiuto-chef in qualche resort alpino è perché un giorno di maggio, durante quel suo tirocinio, un’e-mail fece scattare qualcosa nella testa di Timea. Era una comunicazione da parte degli organizzatori del Roland Garros, un’email automatica di avviso: per via del suo ranking era rientrata tra le ammesse al tabellone di qualificazione del torneo femminile degli Open di Francia. E per la Bacsinszky, che aveva lasciato il tennis, ma non aveva mai chiuso del tutto quella porta, mai aveva comunicato un vero e proprio ritiro dal professionismo e non era stata cancellata dai ranking, quello è il segnale inaspettato dell’universo. Racconta ormai, come se fosse stata un’esperienza mistica da ripercorrere nei suoi dettagli più minuti, che la notte prima aveva dormito in casa della madre dove –per fatalità- si trovava la sua vecchia attrezzatura da tennis che non voleva tenere in casa sua per non essere costretta a vederla. Troppe coincidenze per non vederci qualcosa di più:
“Non riuscivo più quasi a respirare, ma non ci misi molto tempo a decidere. Chiamai il mio capo per dirgli che non sarei tornata al lavoro per qualche giorno e mi misi in macchina per andare a Parigi anche se non mi ero allenata per niente. A quel punto lo sapevo: non importava che vincessi o perdessi, volevo giocare a tennis di nuovo. Per la prima volta nella mia vita avevo l’opportunità di decidere da me cosa volevo fare. È stato un giorno incredibile con me”.
E così, dopo l’improvvisa e tardiva scoperta di poter effettivamente aver voglia di giocare a tennis e cinque ore di automobile da Losanna a Parigi di puro entusiasmo, “come se stessi andando a giocare al Roland Garros per la prima volta”, torna a calcare la terra di un campo da tennis e perde in due set netti. Probabilmente però mai una sconfitta è stata così gioiosa per un atleta professionista, avere finalmente voglia di giocare per Timea valeva più di ogni altra cosa.
I comunisti del signor G a cui non avevano detto tutto erano quelli che non conoscevano del tutto le stridenti ipocrisie che l’applicazione reale e terrena di un ideale teorico porta con sé, a loro non avevano detto tutto perché non si dovessero porre domande troppo profonde. A Timea Bacsinszky in un certo senso è andata meglio, a lei non avevano detto tutto sulla bellezza del tennis, ma soprattutto sulla bellezza di una vita nella quale si può cadere e farsi male (più o meno metaforicamente) ricchi della consapevolezza di averlo scelto e la scoperta è stata poco meno di un’epifania.
Il resto della carriera di Timea è abbastanza vicino nel tempo da essere noto: il ritorno in top-100 e poi in top-50 anche grazie al lavoro con il coach Zavialoff, ex collaboratore di Stan Wawrinka, e un tennis che le permette di togliersi qualche soddisfazione come la vittoria dello scorso anno a Wuhan ottenuta contro Maria Sharapova e, l’ultima, per ora, con la finale raggiunta nel torneo di inizio anno a Shenzhen e persa solo da un’impossibile Simona Halep, ma di sicuro al di là dei risultati più o meno buoni la Bacsinszky sembra aver ritrovato la quadratura della propria vita senza la quale niente potrebbe essere soddisfacente. Perché, e forse non c’è modo migliore di dirlo se non con i versi di un promettente bardo del rock nostrano: “la scelta in fondo è l’unica cosa che rende questa vita almeno dignitosa”. E ora lo sa bene anche lei.
Leggi anche:
- None Found