di Luca Brancher
Chi ben comincia è a metà dell’opera? Questo il luogo comune imperante suole suggerirci e, come ogni assioma proverbiale, uno sfondo di verità dovrebbe pure osservarlo, ma se il nostro obiettivo si fissa su Daniel Evans, allora sarebbe opportuno rivedere la suddetta posizione.
Riassunto delle puntate precedenti: Daniel Evans, speranza disperata del tennis britannico, dopo aver ammesso di non essere mai stato un professionista ineccepibile, trova, al termine di un match vinto in Davis Cup, nuovi stimoli che gli permettono di ergersi a possibile talento sulla scena mondiale. Il culmine è di certo il terzo turno colto allo U.S. Open, dove supera Kei Nishikori e si arrende di fronte all’esperienza di Tommy Robredo. Non è mai troppo tardi.
Il veloce riepilogo sopra esposto si rifà semplicemente alla stagione 2013, però a rileggerlo ci proietta in una dimensione temporale molto più remota, perché non c’è nulla di più facile da dimenticare di qualcosa che sembrava dovesse essere, ma poi si è rivelato un fuoco di paglia, che questo sia accaduto dieci anni oppure un mese fa. Dan Evans, Evo per gli amici, non solo rappresenta tutto questo, ma è un ottimo paradigma del perché la Gran Bretagna fatichi e stenti a rendere effettivi tutti i soldi che annualmente LTA investe sulla propria base giocatori.
Scrivevamo di gente che aveva iniziato bene, ma che non è poi risultata a metà dell’opera, e Daniel Evans, in effetti, non ha steccato nelle sue prime apparizioni dell’anno 2014 sul circuito, quando, nonostante una sconfitta al turno decisivo di qualificazione, ha reagito inanellando tre vittorie nel main draw di Zagabria, fino ad una semifinale d’altissimo livello contro Tommy Haas, persa, ma solo al termine di tre set segnati dalle grandissime traiettorie che entrambi i contendenti regalavano col loro colpo forte, il rovescio. Al britannico mancavano 23 gradini per attraversare la soglia, psicologica e non, più importante del panorama tennistico professionistico: i top-100. La vita cambia, se sei un top-100.
Oggi Evans, più che vicino ai primi 100, è prossimo ad uscire dai top-300, situazione legata anche a problematiche fisiche, come il dolorante tendine rotuleo della gamba sinistra, che gli ha impedito di scendere in campo in questi ultimi due mesi, ma non è tutto qui. A fine giugno, dopo aver riportato una sconfitta sì dolorosa, ma che a posteriori avrebbe comunque avuto una giustificazione, data la grande prova fornita da Andrey Kuznetsov, a Wimbledon, Daniel ha vissuto un nuovo momento di smarrimento, frutto del fatto che il suo coach, sì federale, ma che lo seguiva in maniera costante, il belga Julien Hoferlin, divorziava dalla LTA dopo sei anni, non mancando di puntare il dito contro il sistema, e contro il suo assistito.
“I tennisti inglesi sono troppo viziati, solo così è spiegabile perché non si riesca a creare un altro giocatore del livello di Murray, con tutte le risorse a disposizione, oltre a quelle derivanti da Wimbledon. Il salto da junior a pro’ è veramente un dramma, si perdono tantissimi potenziali buoni giocatori e si è sempre punto e a capo. Daniel ad esempio: avrebbe le qualità per stare tranquillamente e costantemente tra i migliori 60 giocatori della graduatoria mondiale, ma non si è ancora messo in testa che il tennis è la sua occupazione principale, non un breve intermezzo tra varie attività. Non ha voglia di fare sacrifici.”
A leggere queste parole, qualcosa non torna. Si era detto che Evans era finalmente cambiato, che aveva capito cosa doveva fare e cosa no, che nulla era perduto, che l’atto di redenzione era stato compiuto e che il meglio doveva ancora venire. Tutte fandonie? Pare proprio di sì, così come fuoco fatuo appaiono a posteriori i bellissimi versi pronunciati su di lui dallo stesso Hoferlin, dal fisioterapista Steve Kotze e dall’agente Stuart Duguid ad inizio stagione. “Se sta bene fisicamente e mentalmente, non ci sono limiti, gli unici se li può porre lui stesso.” E così è stato, Daniel è tornato a crearsi da sè quelle barriere che gli hanno spesso impedito di esprimersi al meglio.
Piuttosto esemplificativo quanto successo quest’anno nel corso della parentesi estiva nordamericana, che la scorsa stagione gli regalò punti e fama (oltre allo U.S. Open, due finali challenger). Sconfitto all’esordio a Lexington e al secondo turno di Vancouver – manifestazioni challenger – Evo beneficiava, apparentemente, dell’aria di Flushing Meadows, disputando un incontro di coraggio e spessore contro la testa di serie numero 16 delle qualificazioni, Jimmy Wang, arrivando ad un punto dalla vittoria, prima di capitolare al terzo parziale. Dopo quell’incontro, soltanto un altro set giocato e vinto al tie break contro Marshall Tutu, preludio ad un ritiro che lo metteva k.o., situazione da cui non si è mai più ripreso.
Tante volte, in maniera poco sentita e banale, si tende ad elogiare quelle persone note che mantengono, a discapito di un miglioramento della propria condizione, il medesimo stile di vita; nel caso di Evans, ecco, il non essersi calato nella sua nuova condizione di giocatore pro’ più che da elogiare è da deprecare. Nella sua casa di Solihull, non lontano dalla nativa Birmingham, scelta anche per stare vicino alla fidanzata Georgina, che lavora alla Land Rover, deve presto ridestarsi da questo torpore in cui è nuovamente caduto, ora che a seguirlo è Leon Taylor, altro tecnico federale, pronto a giurare sulle sue qualità. Questa storia, però, l’abbiamo già sentita e francamente ha anche un po’ stufato: il tempo scorre e l’attenzione mediatica britannica si è nel frattempo posata su Liam Broady reduce, lui sì, da un grande 2014 statunitense. Il tempo non guarda in faccia nessuno, la rete pare infatti essersi dimenticata di lui, a notare dall’esiguo numero di notizie relative a questi ultimi due mesi, in cui Evans starebbe curando il ginocchio ballerino.
Amiamo il tennis talentuoso, amiamo il tennis di Evans, qualora decidesse di fare sul serio, e sarebbe anche ora, una seconda chance gliela concederemmo, pur convinti di averlo già fatto poco più di un anno fa. Ed è questo che maggiormente ci dovrebbe dare da riflettere.
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