di Piero Emmolo
Simona è la vincitrice morale delle finals. Lo è perchè ne ha detenuto le redini per pochi minuti. Ha potuto fregiarsi d’esser stata giudice arbitro indiscussa delle sorti partecipative di uno dei Master più affascinanti degli ultimi anni. “Vittima” del suo fair play e della crudele nemesi sportiva di una domenica ineluttabilmente regolata dalla legge del più forte. Protagonista inadatta ad assestare un indiretto colpo di grazia all’Araba Fenice Williams. Quel Cerbero dalle mille teste che non perdona e mantiene fede alla mitologica legenda eternamente cefalogenetica. Serena per pochi istanti deve aver vissuto uno sportivo ” death row phenomenon”.
Locuzione con la quale la letteratura penitenziaria americana indica lo stress emotivo che i componenti del braccio della morte vivono poco prima dell’ esecuzione. Forse è meglio alleggerire un pò i termini. Ma pur sempre di una ” fine ” si trattava. Un pó come il “Dead man walking”, per stare in tema, del grande Sean Penn, costretto ad attendere nel braccio della morte, l’incedere inesorabile di un funereo destino. E come Tim Robbins ha celato magistralmente tra i minuti della pellicola una caustica critica alla pena capitale americana, così anche Simona ha fatto del Singapore Indoor Stadium degno peripato per lanciare a tutto il mondo dello sport ( sic! ) un messaggio di fair play e lealtà.
Un gesto, la cui cassa armonica merita di essere ancor più ampliata alla luce delle ultime fughe di notizie dalla procura cremonese. Che poi si sia riverberato negativamente proprio su di lei è il classico effetto collaterale accidentale, degno di menzione a gran voce visto l’ampio grado di probabilità di ri-trovarsi una Williams finalista. Perché affrontare un’Ivanovic o una Wozniacki, pur ottime, non é proprio la stessa cosa. Serena non ha lo Sven Grœneveld di Stüttgart, pronto a rammentarle l’inferiorità dell’avversaria di turno. Non ha bisogno di una figura a bordo campo che le ricordi di essere due/tre spanne sopra tutte. Sa di essere la migliore. Non chiama mai Mouratoglou per i coachings. Considera piu’il suo entourage come un supporto emotivo, amichevole, confidenziale (leggasi Bajin) . Forse anche sentimentale (leggasi Patrick). Ma comunque d’importanza capitale in questa seconda giovinezza tennistica, nella quale sembra proprio aver ri-trovato tutte le componenti per ri-affrontare il tennis con una mentalità esclusiva e totalizzante.
La Halep, d’altro canto, ha forse patito un po’ l’emozione. Non era la solita Simona, abile Cimabue di sciabola, e strepitosa Giotto di fioretto. Balbettava un po’in continuita’. Percentuale di prime palle bassissima. Inusuale mancanza di killer instinct. Non la si sentiva onnipresente in campo come nel match di semifinale. “Omissis mix” letale contro un’esperta e navigata Caronte del circus come Serenona. Ma sarebbe ingeneroso e sintomatico di clamorosa pochezza limitare al flop di domenica la stagione della Halep. Raccontare di Simona riesce a dilettarmi come poche altre tenniste.
Rende inevitabile porre l’accento sull’importanza che nel tennis hanno la dimensione psicologica e la cognizione dei propri mezzi. Testimonia come nelle corde di ogni tennista vi sia, in ogni caso e ad ogni livello, anche il più recondito, una più o meno grande santabarbara di potenziale inespresso, pronta a brillare e detonare se l’artificiere cui la professionista si affidi, piazzi con salomonica sagacia i corretti punti di innesco. Individuare un nesso attendibile, come alcuni si sono incautamente spinti a fare, tra i progressi della rumena e l’intervento di mastoplastica riduttiva è molto arduo. Mi permetto di dire, l’ho sempre ritenuto quasi patetico.
Significherebbe addentrarsi in un’analisi quasi freudiana, i cui processi psichici inconsci, tanto cari al neurologo austriaco, sarebbero potuti essere per Sigmund probante test di attendibilità della sua celebre teoria psicanalitica. Del resto Simona s’è sempre mostrata succinta (a volte reticente) nel rispondere alle domande dei giornalisti in materia. Segno che vuole mantenere privacy e riserbo su un argomento intimo e delicato, tuttavia inevitabilmente catapultato nel braciere dei famelici giornalisti. Con ironica metafora, ebbi modo di twettare che ”veder giocare la Halep fa “male” agli appassionati” praticanti. Ingenera un’effimera illusione che praticare tennis risponda a logiche tecniche quasi robotiche, ripetitive, di facile esecuzione. O che giocare dritti e rovesci lungolinea, specie in corsa, sia esercizio di banale facilità e non di randomica e abile concomitanza di varie componenti, atletiche e tecniche.
Un gioco tremendamente complicato, quello della rumena, ma che con grazia e fluidità appare semplice e lineare. Proprio come il suo simpatico inglese maccheronico, che tradisce una timbrica vocale poco tipicamente “albionica”, ma tremendamente somigliante a quella della dizione anglosassone media di tanti italiani. L’Italia. Paese che nella psiche di Simona sarà sempre ” il luogo della svolta “, del cambiamento, del salto di qualità, della presa di consapevolezza. Come avesse trovato tra i Viali del Foro, smarrite, d’un tratto, senza una logica humana ratio, le chiavi di volta per poter decrittografare con successo il suo database tennistico. La Halep appassiona anche come modello di dedizione al sacrificio.
Mai doma, ha letteralmente frantumato record su record, relegando dietro di sè, in poco più di un anno, quello che la tradizione tennistica rumena in gonnella aveva fatto in decenni e decenni. Simona ha anche rivelato a più riprese un forte attaccamento alla propria Patria. Un approccio sportivo campanilistico da non sottovalutare anche in chiave Fed Cup, competizione nella quale la Romania non è mai giunta nemmeno in finale.
Il Paese dell’est Europa ha i classici connotati qualitativi di buona parte delle nazionali di tennis d’oggi. Un punto fermo, i cui due punti sono quasi sempre assicurati, e tante buone atlete dietro (Niculescu, Begu, Cirstea), magari non esemplari quanto a continuità di risultati, ma comunque capaci di estemporanei exploit. E in un contesto di una campionessa trainante le altre, chissà che non possano trovarsi le alchimie agonistiche giuste per traguardi di prestigio.
La Federtennis rumena, giova dirlo, nonostante budget economici irrisori (si parla di cifre sotto il milione di euro), non smette di sorprendere. Ha infatti investito quel poco che ha nel vivaio, cogliendone inaspettati frutti (leggasi Andreea Mitu), di buon livello, viste le strutture e la qualità manageriale dell’establishment romeno. Simona è molto semplice e schiva. Non ama i talk show e le comparsate esibizionistiche. Nè lo sharing di informazioni senza freni sui social network (anche se registriamo una recente e lievissima inversione di tendenza).
É di una disarmante semplicità e compostezza, non solo caratteriale, ma anche nella quotidiana conduzione della vita. É consapevole di essere una privilegiata. Non tanto nei guadagni, quanto nella possibilità di poter giostrare una carriera libera dall’asfittica e tentacolare kappa del regime dittatoriale della Romania del blocco socialista, che tanti atleti spinse lontano da Transilvania, Valacchia e dintorni. Virginia Ruzici, sua attuale manager e vincitrice del Roland Garros 1978, rimase vittima in tal senso; di un potere totalitario che come una piovra non perde mai occasione di sfruttare ogni foglia che si muova in chiave opprimentemente propagandistica.
Di sicuro, meno fortunata dell’agonisticamente contemporanea ginnasta Nadia Comaneçi, che seppe aggraziarsi i favori del regime di Bucarest a tal punto da divenire l’amante segreta del figlio del dittatore Cauçeascu, giustiziato nel 1989 dopo una rocambolesca fuga e un’escalation incontrollata di violenze e malcontento popolare. Simona vince e convince. Pretende sempre il massimo da sè stessa. Non giustifica nè soprassede ad alcun errore gratuito. Si danna l’anima, inveisce breviloquente, non accettando il verdetto del singolo punto perduto. Salvo ritornare a macinare punti e gioco con la roboante linearità dei suoi gemiti.
Contro la Radwanska ha dato atto di una prova di continuità imbarazzante. Un mordente agonistico sempre “on fire”, che le ha permesso di superare la polacca sciorinando specularmente schemi di regolarità che tanto sono avvezzi al bagaglio tecnico della minuta giocatrice di Cracovia. Il prestigio e la fama in Romania sono già eclatanti. Lo intuisci dalla conoscenza approfondita del fenomeno-Halep nella comunità rumena dela tua città. Semplici lavoratori, spesso vittime del caporalato crepuscolare, gente rispettabilissima ma umile, avvicinatasi con una conoscenza embrionale ma di avvincente curiosità al tennis, proprio per i grandi successi della connazionale.
Segnale inequivocabile di una star la cui notorietà travalica i confini meramente sportivi, per affacciarsi in contesti più cronachisticamente massmediatici, quasi nazional popolari. Un pò come avvenne per la nostra Schiavone nel 2010. Gente che era ferma ad un’inevitabile conoscenza del vetusto ma imperituro Pantheon tennistico Panatta-Pietrangeli; adesso appellava “Leonessa” la giocatrice meneghina, con tono di chi sa che quell’argomento è sempre più di pubblico dominio nelle working class d’ogni livello. Di chi ha consapevolezza che è “socially obliged” avere un’infarinatura anche pressapochistica dell’argomento, pena un’irriverente e scherzosa disistima sociale. Prendo spunto, onde evitare di esser tacciato di “plagio” supertennistico, da una brillante riflessione in cronaca del sempre ottimo Francesco Elia (e, a ruota, dell’immenso Spalluto).
L’anno della Halep è sfilato via tra successi e miglioramenti. Ma anche tra scelte di programmazione cavillose e metodiche, figlie di chiare strategie ponderate e ben ragionate a tavolino con Wim Fissette, suo coach. Numerosi forfait, anche a torneo in corso. Viaggi trans-asiatici per sottoporsi a risonanze magnetiche delle sapienti mani del proprio staff medico. Salvo fare ritorno con un ulteriore volo estenuante. Con tutto quello che ciò comporta in termini di jet lag, mancati allenamenti, stress, introiti da prize-money. Segno di aver maturato anche una saggia capacità di conoscenza dei propri limiti, oltre i quali è sempre bene andare con avveduta prudenza. Magari con un pò di malincuore, ma sempre cosciente di lavorare in modo certosino al fine di mettere insieme tutti i pezzi di quel puzzle chiamato professionismo, sempre più esigente ed ingerente nella vita quotidiana più in alto si arrivi ( o si voglia arrivare ). Simona Halep è tennista di Costanza. Ma anche di costanza. E non solo. Per il bene del tennis l’unico augurio che possiamo farle è catalogare “di transizione” l’anno che va in archivio. Sã mergem, Simona!