di Luca Brancher
E’ inevitabile. Pensi al tennis, a quello australiano in particolare, e ti viene naturale rimembrare il gioco praticato agli albori di questa disciplina, e soprattutto all’indissolubile legame che aveva con la superficie per definizione, l’erba. Rod Laver e Tony Roche, prima ancora Norman Brookes ed Anthony Wilding, più recentemente Pat Cash e lo sfortunato omonimo Rafter, per non citare una delle sorprese del 2014, ovvero la vittoria di Nick Kyrgios su Rafa Nadal negli ottavi dell’ultima edizione di Wimbledon. Australia ed erba, un connubio storico. Qualcuno, però, lo sta mettendo seriamente in dubbio, ma, purtroppo, non per sua volontà.
Se torni a dire Australia, di questi tempi, pensi alla nidiata eccezionale che Down Under è stata da poco sfornata e fatta approdare sui luminosi palcoscenici del tour mondiale. Altro che di luce riflessa, a Sydney, Melbourne, Canberra e dintorni il prossimo decennio potrebbe, e dovrebbe, rifulgere di vera gloria, grazie al Kyrgios già menzionato, senza dimenticare Thanasi Kokkinakis, tra i classe 1996 più apprezzati del mondo intero, per non scordare quanto potranno contribuire a questo scopo altri giocatori di sicuro talento, come Blake Mott, Luke Saville, Alex Bolt, tutti ragazzi che i 20 anni, al massimo, li hanno da poco compiuti. Gente che, se dovesse giocare il torneo della vita, non avrebbe esitazione ad indicare un manto rapido (Bolt ha vinto un challenger su terra battuta, in Cina, in una situazione particolare, ma non è un fattore discordante con quanto appena affermato), ad eccezione di uno. Quello che, un lustro fa, veniva additato come il braccio destro di Bernard Tomic nella conquista del mondo della racchetta, poi etichettato in breve tempo come uno dei tanti giocatori che sembravano essere stati bruciati da una wild card improvvida. La verità, però, è molto lontana da tutto questo: stiamo parlando di Jason Kubler.
Nato il 19 maggio 1993 a Brisbane, ma residente da subito nel sobborgo di recente creazione di Mango Hill, Jason non ha avuto assolutamente un’infanzia semplice, da quando, a 8 anni, ha visto il padre morire di cancro, la stessa persona che lo aveva avvicinato a questa disciplina. Da quel momento, la madre, Lynn, dovette sacrificarsi non poco per la sua famiglia, che oltre a lei e Jason era composta da altri due ragazzi, Jonathan, tre anni più grande della promessa, e Jade, due anni più piccola. Grazie al suo prodigarsi ha così permesso a Kubler di non smettere col tennis, situazione che ad un certo punto appariva inesorabile, dal momento che i soldi scarseggiavano in casa. Sul campo, però, i sacrifici di mamma Lynn trovarono un’immediata ricompensa, tanto che, nel corso dell’anno 2009, Kubler dominava il circuito asiatico junior e trascinava la selezione dei canguri al trionfo nella Junior Davis Cup, fattori che risultavano decisivi nell’assegnazione della wild card per il successivo Australian Open: dopo che l’anno precedente lo stesso Tomic aveva conquistato il suo primo successo, a 17 anni non ancora compiuti, nel torneo Slam di casa, Jason sembrava destinato ad un approdo altrettanto felice e di successo. In verità un accoppiamento sfavorevole, il croato Ivan Ljubicic, non ha regalato un sorriso al giovane ragazzo, che era sostenuto, tra il pubblico, da tutta la famiglia. Cinque giochi, non uno di più: un magro bottino.
Ad essere del tutto onesti, però, a preoccupare la famiglia, e lo staff, non fu quella cocente sconfitta, bensì i problemi legati alle ginocchia che Jason si trascinava sin da quando aveva 15 anni. Come è solito raccontare il suo coach di allora, David Hodge, Jason, una mattina, era molto presto, circa le 7e30, si avvicinò all’allenatore dicendogli “Ehi David, avverto qualcosa di strano alle ginocchia.”. Il lamento non sortì alcun effetto, tanto che gli fu detto di continuare a colpire e di non pensarci: non era accaduto nulla di traumatico, per quale ragione un ragazzo sano e di buona costituzione avrebbe dovuto patire un infortunio? Ed invece, una volta avvicinato, Hodge notò subito come il ginocchio del ragazzo fosse, per dire, deformato. Dava l’impressione di non reggere il peso dei muscoli superiori della gamba. Un brutto spettacolo, l’inizio del calvario: da quel momento, Jason ha subito quattro interventi chirurgici. E soprattutto è da quattro anni che, per evitare sollecitazioni, non disputa un torneo che non sia sulla terra battuta.
E non è tutto qui: lo scorso anno, dopo che nel 2012 l’australiano aveva mostrato che qualche buon risultato era ancora in grado di conseguirlo, un nuovo stop, nel bel mezzo della stagione estiva europea, lo costringeva a cinque mesi di inattività, in cui scelse di tornare nella sua Brisbane, praticando alla Queensland Tennis Academy. La federazione australiana, non essendo più il ragazzo uno junior degno di attenzione, non garantiva il medesimo trattamento finanziario di prima, per cui Jason meditava il ritiro: poteva fare il maestro, insegnare ai giovani e contribuire ad una situazione economica disastrata. Proprio in quel periodo, però, nella vita di Jason è entrata una ragazza, Sally Matheson, studentessa in medicina, che non appena divenne la sua fidanzata, fece una scelta altrettanto coraggiosa, quella di interrompere gli studi e di affiancarlo passo dopo passo, per aiutarlo a ritrovare quella fiducia persa nel tennis.
Tra circa sette giorni sarà passato esattamente un anno dall’ultimo rientro di Kubler sul circuito internazionale: ripartì dalla Spagna e dall’Egitto, dove collezionò due titoli ITF e due semifinali, utili per ricominciare. Un’avventura affascinante, ma rischiosa, provare a ricostruirsi una classifica esibendosi molto lontano da casa, con i soldi che, da un momento all’altro, potevano finire: col successo della scorsa settimana nel challenger di Sibiu (foto a sinistra), Romania, contro il moldavo Radu Albot, il giovane di Brisbane ha ottenuto il suo primo titolo a questo livello, oltre ad aver toccato la 155esima posizione della graduatoria mondiale. Però quanto è stato difficile riemergere, tracciando un percorso in cui ci sono stati alcuni passaggi fondamentali, che hanno messo alla prova le qualità e la tempra dell’ex-promessa aussie.
Il più curioso, ed anche più sfortunato, a Tallahassee, in Florida, dove viene organizzato l’unico challenger su terra battuta dell’intero continente nordamericano – Sarasota e Savannah sono le altre due manifestazioni che si svolgono su terra, ma quella verde – che avrebbe determinato la wild card statunitense per il main draw del Roland Garros. Premio che non poteva spettare al nostro Jason, in quanto australiano, che comunque vantava discrete attese da questo torneo, non frequentato da terraioli d.o.c.: dopo un primo turno superato indenne contro Daniel Kosakowski, il maltempo causava dei ritardi, che comportavano il prosieguo del torneo indoor, sul cemento. Dopo due giochi dell’incontro del secondo turno, Jason era costretto ad alzare bandiera bianca e lasciare strada libera al britannico James Ward. Di ritorno dalla tournée americana, sfumata la wild card per le qualificazioni del Roland Garros in favore del giovane Kokkinakis, meglio di lui classificato nel challenger di Heillbron, il tennista di Brisbane fece un’amara scoperta: guadagnando, quando andava bene, 800 euro a settimana, e doveva proprio andare bene, i soldi stavano per finire. Ci voleva un grande risultato nell’ATP di Dusseldorf, passata sede della World Team Cup che dal 2013 ospita una manifestazione con la formula tradizionale.
Nonostante l’ovvia tensione, dal momento che dietro ogni partita si nascondeva qualcosa di più di una semplice vittoria o sconfitta, Kubler centrava la prima qualificazione in un torneo del circuito maggiore, superando pure il primo turno, ai danni di Alessandro Giannessi, e venendo poi sconfitto, solo al terzo set, da Denis Istomin. Ossigeno, economico, ma anche tanta fiducia per il morale: da quel momento la stagione di Jason è svoltata, fino alla vittoria di domenica. Con ogni probabilità questo alloro gli garantirà una wild card per il prossimo major di Melbourne, che però non si disputa sulla terra battuta, bensì, come noto, sul plexicushion.
“Cercherò di fare una buona preparazione, al fine di fortificare le mie ginocchia e mettermi nelle migliori condizioni possibili, affinché non mi succeda nulla di male. E’ ovvio che c’è la possibilità che qualcosa di negativo mi accada, ma mi trovo nelle condizioni di poter giocare un torneo del Grande Slam. Per cui devo tentare ed accettare il rischio.”
Sì, ci sono tutti gli ingredienti perché l’ennesima favola dello sport si concretizzi: già così, tuttavia, è una bella storia di speranza da raccontare.
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