di Gianfilippo Maiga
“Sandra” Anna Maria Cecchini, parafrasando il noto film con John Wayne, è una donna tranquilla. Come il protagonista di quel film, lo è perché ha scelto di vivere tranquillamente e perché la sua indole schiva la porta a cercare la tranquillità, ma, come quel protagonista, ha un passato guerriero, che ritorna prepotentemente nei suoi ricordi e, credo, le piacerebbe ritornasse nella sua vita quotidiana, anche se lei non lo va a cercare.
Innanzitutto, Anna Maria, perché “Sandra”?
“Per ragioni francamente misteriose, i miei mi hanno chiamata così da subito e Sandra sono sempre rimasta. Talmente Sandra – e talmente poco Anna Maria – che devo fare attenzione a non fare pasticci quando il mio nome compare in documenti ufficiali.”
La tua carriera ti ha portato a ridosso delle top ten, anche se ad un livello comunque straordinario,(15 wta). Com’eri come giocatrice e cosa ti è mancato per raggiungere i vertici assoluti?
“Come giocatrice ero fisicamente molto forte, non mollavo mai , giocavo in prevalenza a fondo campo, per chiudere con il mio colpo migliore, il rovescio in back. Sentivo di essere una giocatrice completa senza riuscire ad esprimere tutte le mie potenzialità. Mi sono formata e allenata al centro tecnico di Latina, che da un lato mi metteva a disposizione tutto quanto serviva a una professionista, dall’altro non mi ha permesso di acquisire quella tranquillità e fiducia che bisogna avere quando entri in campo. Il Tecnico che ci allenava era tecnicamente valido, ma quando alleni dei giovani devi avere tatto e umanità, caratteristiche ben lontane dal tecnico in questione. Sicuramente se avessi avuto vicino una persona positiva mi sarei espressa diversamente. Mi quindi è mancato un pizzico di autostima, di piena convinzione dei miei mezzi. Intendiamoci, ho vinto e vinto tanto, ma quando incontravo certe giocatrici di punta, che consideravo mostri sacri, spesso non sono riuscita a batterle per un nonnulla; quella minima differenza era lunga quanto una certa intima sfiducia verso me stessa. Va anche detto che il tour era veramente difficile. Le giocatrici di punta non avevano un gioco standardizzato e, quindi, prevedibile come quello delle professioniste che oggi eccellono e per batterle e stare al loro livello dovevi essere più che mai solida mentalmente: è proprio questa componente che mi ha tradito in più di un’occasione. Forse mi è mancata una figura che mi stesse vicina, che mi seguisse, che mi motivasse perché ai tempi viaggiavo prevalentemente da sola. Non parliamo poi di quei supporti motivazionali, quali lo psicologo sportivo, che oggi si utilizzano a tutti i livelli e che allora erano ad uno stadio pionieristico.”
Tu sei la più vincente di sempre fra le italiane con 14 titoli vinti in singolare e 11 in doppio (senza dimenticare l’Orange Bowl da junior). Cionondimeno, il tuo palmarès nei tornei del Grande Slam sembra mancare di acuti proporzionati al tuo livello. Come te lo spieghi?
“Per la verità ho più di una buona prestazione al mio attivo nei tornei del Grande Slam: i quarti al Roland Garros (sconfitta con Seles), il quarto turno a Flushing Meadow (perso con Navratilova). Avrei probabilmente potuto fare qualcosa in più, ma un po’ per quanto ho detto prima, un po’ per mancanza di fortuna, una componente fondamentale, mi è mancato l’acuto. Prendiamo d’altronde l’anno in cui ho perso con la Seles: era una giocatrice nuova e diversa da tutte quelle che giocavano fino a quel momento, la prima a giocare ben dentro al campo e a un ritmo infernale.”
Hai disputato molte partite emozionanti, (incontrando tra le altre Graf, Sabatini, Fernandez, Seles, Pierce, Evert ecc.), e hai riportato molte vittorie. Non puoi non avere grandi ricordi. Quali scegli?
“Le vittorie, tante ,sono naturalmente tutte nel mio cuore, (e fra loro quelle con Sabatini e soprattutto con quell’antipatica di Chris Evert in Fed Cup). Mi piace tuttavia parlare di 3 sconfitte, perché le ricordo come partite bellissime, che – ripensandoci oggi – mi lanciavano un messaggio forte sulla mia qualità tennistica. Con la Seles al Roland Garros conducevo 6-3, 2-1 e 30-15, quando una palla stregata, che rivedo ancora oggi, è uscita di un niente, anzi meno. Quella palla ha cambiato l’inerzia della partita e la Seles da quel momento mi ha “rullato”. Con Steffi Graf ho perso a Berlino al terzo set e con Navratilova conducevo 2-0 al terzo, prima di andare sotto. Forse in quelle tre non vittorie, nelle quali mi sono emozionata e divertita e di cui vado fiera per il gioco espresso si è giocata la mia carriera. Avessi vinto, forse avrei dato una ulteriore svolta positiva alla mia professione, avrei trovato quella convinzione che mi mancava per raggiungere traguardi ancora più alti.”
Appartieni ad una generazione di campionesse per quanto riguarda il tennis italiano: Golarsa, Reggi, Garrone, Ferrando, Bonsignori, con due giocatrici che come te hanno sfiorato un best ranking nelle top ten e un gruppo comunque di grande valore internazionale. Puoi fare un confronto fra quella generazione e quella che sta chiudendo oggi un nuovo ciclo glorioso? Come mai quel gruppo non ha avuto la stessa fortuna in Fed Cup?
“Innanzitutto c`è una grande differenza ambientale. Allora il circuito era come una famiglia, in cui le atlete erano, sì, sportivamente rivali, ma sapevano condividere amichevolmente molti momenti sia di lavoro, allenandosi insieme, sia conviviali. Naturalmente non tutte mostravano la medesima disponibilità: tanto quanto erano simpatiche Martina Navratilova, Arantxa Sanchez, Conchita Martinez o Gabriela Sabatini, per citarne alcune, o le ragazze italiane del gruppo che seguiva il tour, tanto erano scostanti Chris Evert e, prima che la sua vita – tennistica e non – cambiasse per il noto attentato, Monica Seles, forse perché impregnate della cultura americana, (anche la Seles che negli USA era cresciuta tennisticamente) che ti impone di “odiare” il tuo avversario e quindi di non fraternizzare con lui. Nel complesso però era bello starci dentro. Oggi, invece, i rapporti sono, parlando in generale, più spersonalizzati e distanti, forse anche perché nei tornei del circuito maggiore i protagonisti viaggiano attorniati da un proprio entourage, per non parlare dei grandissimi, che hanno vita da vere e proprie stars. Inoltre vedo anche un differente livello tecnico, favorevole alla nostra epoca, quanto meno per quello che concerne le tenniste di punta. Non dimentichiamo che noi non eravamo affatto male, con 10 tenniste nelle prime 100. Senza voler essere ingenerosa verso il tennis femminile odierno, le punte del tennis di allora oggi non ci sono più. Fuori le Williams, che non credo avranno la forza di riproporsi a certi livelli, fuori la Henin, un grande talento tennistico, restano grandi atlete, più che grandi tenniste. Oggi, si può dire, manca una vera leadership: in ogni torneo vince la tennista più in forma, come provano il Roland Garros e Wimbledon, appannaggio di due outsiders. Quanto alla Fed Cup, va detto che allora tutte le più grandi giocatrici la giocavano, a differenza di oggi: fatta questa premessa, “chapeau” alle nostre, sia perché hanno comunque battuto avversarie di valore, sia perché vincere è sempre difficile e non tutti ci riescono.”
Cosa hai fatto dopo il tuo ritiro? Tu sei un altro grande nome che, dopo aver avuto grandi successi da professionista, è sparito dal panorama del tennis italiano che conta. Come mai?
“La mia vita è e rimane il tennis. Ho iniziato ragazzina per caso. Ero sportiva (in senso lato) dentro, finchè un maestro di tennis non mi ha notato, (avevo fatto a quel momento solo un breve corso estivo) e, passando attraverso la mia prima vittoria di prestigio, la Coppa Lambertenghi under 12, non ho più smesso. Dopo l’abbandono della carriera professionistica ho avuto un paio di anni sabbatici e poi ero pronta a rimettermi in gioco. Ho dato una mano a Francesca Lubiani, che giocava professionalmente, ho allenato per qualche tempo una ragazza in USA, ma poi sono ritornata nelle mie terre d’origine, prima lavorando in un circolo a Milano Marittima e ora a Cervia. L’ultima notizia che ho della Federazione data dei tempi di Adriano Panatta, che mi chiamò per chiedermi che cosa volevo fare e se ero disponibile. Ho prontamente dato la mia disponibilità, ma da allora non ho sentito più nessuno. Non ho dissidi con la Federazione: anzi, devo alla Federazione la mia crescita tennistica, perché a 12 anni mi sono trasferita nel centro federale, che, come ho già accennato, allora era a Latina e lì ho avuto possibilità di allenarmi e di migliorare che altrimenti non avrei avuto stando a casa. Il silenzio che oggi avverto è quindi dovuto a due cose: alla mia indole un po’ troppo schiva, che mi trattiene dal farmi vedere e, quindi, dal farmi ricordare e, purtroppo, alla apparente mancanza di un progetto per il tennis femminile, che lascia intravedere un pauroso vuoto dopo l’attuale generazione vincente. Devo confessare che anche l’attuale organizzazione agonistica giovanile, strutturata nei PIA e nelle Macroaree, mi rende perplessa, non ne comprendo appieno la funzionalità.”
Se tu potessi di scegliere di fare qualcosa in ambito tennistico, cosa ti piacerebbe fare?
“Vivo qui una perenne contraddizione. Oggi gestisco una mini struttura (un campo!) in cui faccio tutto: lezione ai bambini, agonistica, lezioni private, lavorando 10 ore al giorno. Alcuni aspetti di questo lavoro sono altamente gratificanti, in particolare stare con i più giovani. Forse con loro riesco a stabilire un buon rapporto proprio perché mi ricordo di aver sofferto la mancanza di una figura che mi capisse e motivasse quando ero giovane io e ne avevo bisogno. Non posso però nascondere che questa vita mi va un po’ stretta. L’ambiente, in particolare, mi delude: fra chi allena dovrebbe esserci un continuo scambio di informazioni ed esperienze e invece ci sono solo invidie e gelosie. Mi piacerebbe quindi tornare a mettermi in gioco e trovare una giocatrice (o, perché no, un giocatore) da allenare. Per farlo però occorre o che la Federazione decida di utilizzare in modo più esteso i suoi ex-campioni, in quanto depositari di competenze non facilmente reperibili (nel mondo del tennis sono molte purtroppo le figure che millantano..) o che io mi renda più visibile di quanto fatto fin qui. Poiché la Federazione non dà segnali, dovrò far violenza al mio carattere, che mi rende restia a coltivare pubbliche relazioni!”
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